Veleno
Veleno. Oggi non vi parlo di chupiti, università e compañeros. Sarà la distanza, o sarà che mi manca la pizza: oggi i toni sono più cupi, sarò fuori tema. Perdonatemi. Qualche settimana prima di lasciare l’Italia, la video intervista shock a Carmine Schiavone mi fece ribollire il sangue e mi diede una spinta a scappar via.
Quella sua voce che gracchia nelle orecchie le vocali tirate troppo a lungo, ogni gesto delle mani che pare suggerire: “Tutto è molto semplice: i soldi sono la benzina del mondo; non si guarda in faccia nessuno, scemi voi che non l’avevate capito. Quest’è”.
E soprattutto non tollero la leggerezza nel parlare di morti e violenze. Morti avvenute, che avverranno; morti lentamente in corso.
Un popolo avvelenato è il mio. La mia terra è malata; forse persino la mia piantina di basilico nel giardino di casa è tossica. E mi fa male il cuore, mi si stringe, mi si contrae più a lungo nel petto, perché una soluzione io proprio non la vedo. Cosa prospetta il futuro? Che succederà alla mia terra? Che succederà alle persone che ogni giorno la abitano e muoiono un po’?
Tentavo di spiegare ad altri studenti stranieri come si vive nelle terre avvelenate dalla camorra. “Come fate a non far nulla se lo sapete? Perché continuate a vivere lì? Perché i colpevoli non vengono puniti?”
Gli ho raccontato delle coltri di fumo che tingono di nero il cielo della terra dei fuochi. Del contrasto forte che fanno con l’azzurro verace dei giorni di primavera. Gli ho detto delle percoche e delle mele annurche delle quali siamo fieri, tanto saporite quanto corrosive. E gli ho parlato anche del cancro; di come irrompe in casa a colazione un mercoledì mattina, senza avvisare, sorprendendoti ancora in pigiama.
Che vita è questa? Davvero, che vita è?
“Come fate a non far nulla se lo sapete? Perché continuate a vivere lì? Perché i colpevoli non vengono puniti?”
Domande più che legittime. Ma se è facile fargli capire che la pasta va scolata al dente per sentirne la giusta callosità, non è altrettanto facile rispondere a domande come queste.
E a 1557 km di distanza dal gigantesco cappello di quel fungo velenoso, io per un po’ mi son sentita al sicuro, e me ne vergogno. Ho pensato che mi stavo risparmiando qualche radiazione, qualche spora volante, mi sono sentita più sana a non calpestare la terra che è la mia, percepita non come culla e riparo, ma come cimitero a cielo aperto.
Non ho mai sopportato marce per la pace, fiaccolate di notte e fesserie del genere. Le trovo fini a se stesse, spente, inerti seppur in movimento. “Stasera vieni alla marcia? Dai, non puoi mancare, viene anche Fabio!”.
Non che non ci veda una puntina d’allusione alla rivolta pacifista alla Gandhi, ma… passeggiare tutti insieme mentre alle spalle un incendio divampa è davvero la cosa più saggia?
Non ho mai sopportato marce per la pace, fiaccolate di notte e fesserie del genere. Le trovo fini a se stesse, spente, inerti seppur in movimento.
E mi son chiesta: servirà a qualcosa? Smuoverà le acque putride? Non lo so; penso non lo sappia nessuno. Forse ora la vedo così nera che penso che 60mila paia di gambe in movimento non renderanno l’aria più respirabile. Ma forse è così che si risvegliano le coscienze.
Forse la presa di posizione, anche solo morale, anche solo dentro ognuno di quelli che marciava è una prima pietra per la ricostruzione. La settimana prossima e l’anno prossimo ci saranno altre morti e nuove diagnosi, questo è un dato di fatto.
Ma mi piace l’idea di sperare ancora, forse stupidamente, per una terra che vomita ininterrottamente come in un continuo smaltimento di sbornia; e che, come un alcolizzato, continua a bere ogni mattina.
Poi ci rifletto, e mi metto nei panni di chi si trova lì, frustrato e volenteroso, giovane e sconfitto, con le mani legate. Mi metto la coppola dei vecchietti campani e il grembiule bianco dei bambini dietro le cancellate verdi muschio degli asili. Mi rimetto i miei jeans d’un mese fa. Abbiamo forse una soluzione migliore?
Cosa ci si può inventare di meglio di una marcia, per spiegare alla signora del terzo piano che la telenovela può aspettare, perché stiamo tutti morendo? Come far capire ai giovanissimi le ragioni vere e documentate dello scendere in piazza non per fare una semplice passeggiata?
Come si può scuotere un popolo intero tristemente famoso per la sua omertà e il laissez-faire?
Non si organizzano marce per scelta. Si organizzano marce perché è l’unica alternativa possibile.