Sydney Road. Una malata di vita, alla ricerca delle sensazioni perdute
Un sabato mattina come un altro. Sempre Melbourne. Ora di pranzo.
Il buon vecchio Cicerone diceva: “Una stanza senza libri è come un corpo senz’anima”. Cosa direbbe se vedesse una casa intera senza ombra di pagine stampate in alcun loco? Ve lo dico io: “Scappa!“ E allora via dalla sterilità di un ambiente bianco, vuoto, via da stanze senz’anima e compassione, via da questo posto per qualche ora (ahimè, troppo poco, lo so) per ricaricare le batterie. Ho bisogno di sole, colori, profumi, altrimenti impazzisco. Sarò pur venuta in Ozzie per qualcosa? I miei cinque sensi hanno bisogno di stimoli costanti; sarò malata di emozioni, percezioni, sensazioni; sarò mica malata di vita? Non lo so, ma gli auricolari, pronti in posizione dopo i dieci minuti persi a sbrogliarne i fili (tipico) ci sono, la sciarpina per difendermi dall’onnipresente vento australiano c’è, la borsa, l’album e carboncini per eventuale schizzo da ispirazione imminente ci sono, l’ombrello per il tipico tempo “alla Melbourne” (vedremo più avanti anche questo) c’è; insomma posso andare.
Accetto lo strappo in auto fino alla grande ed infinita Sydney Road perché dista un bel po’ di chilometri da dove alloggio, e nonostante lo stato d’animo offeso e disilluso, per questioni troppo lunghe e assurde da raccontare in questo momento, mi accingo ad affrontare quello che altri avevano previsto essere un pomeriggio alla ricerca sfrenata di lavori ics, mentre io avevo preventivato diventasse un momento per me, per riattivare i miei poveri sensi assopiti. La colonna sonora funziona a shuffle, quindi lascio che il caso decida quale pezzo suonare per la mia lunga passeggiata e, come al solito, i miei timpani si complimentano con Mr. Destino che sa scegliere sempre la base perfetta. Già qui, l’udito è in fase riattivazione. Bene. Quando si passeggia da soli si ha la possibilità, con la musica nelle orecchie, di lasciare che i pensieri si associno alle note, per fortuna. Sì, perché senza musica succede che perdi tre quarti del tempo a pensare (come sotto la doccia) con quella simpaticissima vocina in testa, o “coscienza”, chiamatela come vi pare, che se va bene ti fa avere illuminazioni esistenziali, e se va male ti manda in paranoia. Gentile, ma se potessi licenziarla lo farei. Quindi dicevo: mente occupata, ergo resto del corpo in ricezione. Perfetto. In lontananza non si vede altro che traffico, la Road è veramente infinita, ma chi se ne importa. Oggi ho tempo per me. Il senso della vista si sta riscaldando, sono pronta a registrare tutto nel meraviglioso settore della memoria. Passo davanti a uno, due, tre negozi, una banca, un’altra, un caffè, e altri centinaia di posti, quasi tutti chiusi perché o aprono sul tardi come i locali notturni (appunto) o sono in pausa pranzo. Meglio così. Camminando incontro persone, incrocio gli sguardi, ma generalmente li schivo perché, per quanto a molti possa non sembrare, mi vergogno un po’, e proseguo con passo più spedito.
Mentre sfioro le persone sedute ai tavoli dei pochi locali ancora aperti, per lo più di gastronomia orientale, scorgo cani al seguito di giovani che sembrano essersi appena svegliati, e li osservo con espressione un po’ malinconica perché sento la mancanza dei miei cagnoloni. In certi posti, come quelli in cui soggiorno, per intenderci, non vogliono nemmeno saperne di animali domestici. Sgomento? Sul mio viso sì. Accarezzare un cane, un animale in generale, è terapeutico, e chi osa contraddirmi semplicemente non ne sa nulla. Suvvia, non voglio essere drastica o razzista nei confronti dei non-amanti degli animali, ma… beh, buttiamola sul “per me, è così”. Ad un tratto, un misto pitbull alla mia destra si alza dalla sua posizione accucciata e si sposta verso la goffa figura che sopraggiunge quasi marciando; “he sensed me”, penso (eh già, spesso e volentieri i pensieri mi sorgono in lingua inglese); magari ha captato qualcosa del mio malessere, chi lo sa. Mi annusa veloce. Lo accarezzo scaltra prima che il ragazzo tiri il guinzaglio verso la parte opposta per allontanarlo e sorrido per fargli capire che non è un problema, anzi. Lui non lo sa, ma le mie dita lo ringraziano. Il tatto è stato alimentato, anche se solo per pochi istanti. Senza nemmeno guardarmi attorno riconosco la zona italiana grazie ai profumi di pizza, il quartiere turco per l’odore di carne cotta, la parte indiana con i profumi d’incenso che ti penetrano fino al cervello e l’immancabile McDonald’s: l’odore di patatine fritte è “subliminale”. Resisto. Tra l’altro, qui il McDonald’s viene chiamato Mecca’s, pronunciato mek(ae)ss. Perché? Non lo so. L’ho chiesto anch’io. Risposta: “cos it’s mecca’s!”. Giusto, che idiota, perché non c’ho pensato prima?
Cammina cammina, vedo una vetrina, strabuzzo gli occhi, mi ravvivo, giro subito a sinistra verso la porta, la apro: il paradiso. Mi perdo per tre quarti d’ora, forse di più, dentro una libreria traboccante di ogni tipo di opera editoriale e much more. Sfioro i “non toccare, pezzo antico”, leggo la data di uno: 1956, “antichissimo” penso, e sorrido: per gli Australiani, così “giovani”, è un pezzo di storia. Alla cassa pago il libro che ho scelto dopo essermi ubriacata di sinopsi e dico: “scusa se ci ho impiegato una vita”, “no problem”, mi risponde la ragazza, gentilmente. Approfitto per chiedere: “non è che abbiate bisogno di qualcuno che vi aiuti, non so, a riporre i libri, spolverare, vendere, urlare, qualcosa? Sai, sto cercando lavoro”, silenzio, occhi alla “gatto con gli stivali” di Shrek, ma nulla. Non funziona. “Eh no, come vedi non è molto affollato come posto”. Già. Tristezza di umani che non si riempiono le case di libri; voi, siete stati nominati. Se vi si potesse eliminare con il televoto magari…….
Trascorrono tre ore senza nemmeno che me ne accorga; ho l’impressione che i piedi invece se ne siano resi conto, ma che non l’abbiano lasciato intendere fino a quando mi sono fermata al caffè “Di Bella” (sì, come lo scienziato, ma non credo siano parenti, tranquilli) per ordinare un Chai Tea Latte with soy milk, mia bevanda preferita dai tempi del lontano soggiorno statunitense. Ecco, lì il piede destro mi ha ben spiegato come si sentiva presentandomi il conto. Ma il Chai ha cancellato ogni problema, almeno fino alla fermata della Metro che poi mi ha riportata a casa. Osservando fuori dai finestrini la Melbourne che imparerò a conoscere, anche il gusto veniva soddisfatto. Per fortuna che di sensi ne abbiamo cinque, altrimenti non so come avrei fatto a proseguire nella ricerca delle sensazioni perdute. Pausa di riflessione.
Per chi se lo fosse chiesto: Ozzie, citata all’inizio, è l’Australia. Ecco perché abbiamo deciso di chiamare OzzieNotes questa rubrica: i miei appunti australiani.
Ma voi, in Ozzie, un salto, ce lo fareste? Dai!
See ya mates.