Transaralica, sui binari da Mosca a Tashkent
Da tempo sognavo di poter arrivare in Asia centrale senza pigliare un mezzo volante, così tra un ripensamento e l’altro mi sono convinto a prendere una decisione per questo viaggio di due mesi: il treno 006 che da Mosca si reca a Tashkent, in Uzbekistan, con una traversata di cinque giorni attraverso Russia e Kazakhstan avrebbe avuto come ospite me medesimo.
I treni russi e più in generale quelli di alcune delle vecchie repubbliche sovietiche, hanno ancora al loro interno la divisione in tre classi differenti con comodità e prezzi disparati.
Vi è una prima classe , spalny, che comprende scompartimenti privati con sole due cuccette all’interno, dotate di molto spazio e buoni confort. I prezzi sono proibitivi.
La seconda classe è denominata kupe ed al suo interno si possono trovare scompartimenti privati con quattro cuccette. Lo spazio a disposizione è inferiore alla prima classe ed il prezzo è dimezzato.
Vi è poi la terza classe, quella più economica, dove la privacy non è di casa ma l’emozione e l’incontro con famiglie e genti semplici sono i benvenuti: la platzkart. In questa classe non si trova la divisione in scompartimenti e le cuccette sono ben cinquantaquattro, divise in gruppi di due sul lato corridoio ed in quattro sull’altro.
Per la mia indole da esploratore e con la voglia di conoscere quante più storie di vita possibili, non ho optato per il comfort e per la privacy, bensì per la condivisione ed il continuo confronto di se stessi con altri passeggeri. La prenotazione del mio biglietto recita infatti “Platzkart”, la terza classe mi avrebbe accolto nei suoi locali con le dovute sorprese per un tragitto di cinque giorni del quale non scorderò neanche un singolo attimo.
Il mio interesse verso questo genere di treni a lunga percorrenza non è una novità nella mia vita. Già l’anno precedente, in un viaggio attorno al medioriente ed ai balcani, avevo optato per un lungo “on the rail” dalla capitale Turca a quella iraniana, scegliendo di viaggiare sul famoso Transasia Expresi. Nei suoi scompartimenti divisi in un’unica classe formata da scompartimenti di quattro cuccette, avevo avuto l’occasione di parlare e condividere la magnifica esperienza di quattro giorni con genti curde ed iraniane, riuscendo comunque ad avere un minimo di privacy, almeno durante le ore di sonno. Stavolta il viaggio sarebbe stato diverso, a causa proprio della vita in terza classe fatta di continue condivisioni ed assenza di scompartimenti. Il treno da Mosca a Tashkent è un treno molto particolare che segue l’asse transaralico, collegando due grandi capitali legate da un grande passato di continui scambi reciproci. Soprattutto in epoca sovietica, quando la capitale uzbeka era sotto l’Unione, ma il flusso di merci e passeggeri non si è mai interrotto, arrivando oggi ad essere uno dei principali punti d’incontro tra il continente europeo e quello asiatico.
La transaralica non è una delle vie più conosciute e frequentate dalle masse di turisti più avventurosi che optano generalmente per viaggi a lunga percorrenza lungo la nominatissima transiberiana, così come tenterà di spiegarmi successivamente il provodnik (una sorta di capo scompartimento, come un padre di famiglia che cura gli interessi del vagone sotto la sua attenzione) sono uno tra i pochi “europei” che si siano mai visti affrontare il viaggio in terza classe su questo tragitto.
Il treno 006 ospita per lo più nei suoi scompartimenti un gran numero di famiglie di lavoratori e lavoratrici uzbeki. Questi rientrano a casa dopo intense giornate di lavoro, affrontando una lunga odissea di quattro giorni per portare a casa un gruzzolo di soldi dall’ex madrepatria russa.
La capitale di partenza, Mosca, è difatti una città con una presenza di centro asiatici altissima; molti di loro lavorano in nero e non possono permettersi un alloggio a lunga durata nella capitale, così la scelta più economica è il pendolarismo tra Uzbekistan e Russia. Un pendolarismo di più di settanta ore che ha la spaventosa particolarità d’essere transnazionale, continuo ed obbligato.
Arrivo alla stazione Kazanskaya di Mosca, dove il lunghissimo treno è pronto per partire per la traversata sino all’Asia centrale, trascinato da un’antica motrice d’era sovietica. Dopo una strombazzata ed una potente fumata nera, il treno parte e l’atmosfera che si respira da subito all’interno del grande scompartimento non è certamente delle più allegre e delle più rilassate. La differenza con altri treni a lunga percorrenza presi nel passato è estremamente radicale: la stanchezza negli occhi dei lavoratori è percepibile in ogni sguardo, così come la voglia di andarsene dalla vecchia capitale sovietica per ritrovare il calore familiare dell’Uzbekistan; lavoratori e lavoratrici, giovani ed intere famiglie costrette ad abbandonare saltuariamente la propria casa per le pessime condizioni di vita e le poche opportunità di lavoro sicuro che si presentano nel paese centro asiatico; genti che fuggono da un regime che è pronto ad incarcerare ogni oppositore politico con la scusa di terrorismo per approdare in un paese dove l’odio etnico e razziale è accompagnato da un ben radicato sfruttamento dell’immigrato nel mondo del lavoro più duro e mal pagato.
Mi sistemo al mio posto e la situazione che mi circonda è quasi imbarazzante; il silenzio che inonda i primi minuti del tragitto, mi lascia presagire che la situazione non sarà delle migliori. Vi è una sorta di diffidenza nei mie confronti; qualche sguardo austero ed il timido saluto di un passeggero, rendono l’aria estremamente mesta. La situazione va subito rilassandosi, quando il mio sguardo abbraccia il sorriso gentile di un ragazzo che si sistema proprio nel posto letto di fronte al mio, offrendomi un quanto mai caloroso saluto di presentazione, porgendomi la mano. Il suddetto passeggero diventerà ben presto un inseparabile compagno di viaggio, con il quale condividere ogni cosa per tutto il tragitto: dalle sigarette al tè, sino alla vodka ed al cognac.
La prima notte sul treno 006 non passerà comunque nel migliore dei modi; la temperatura nel treno è rigidissima e non si riesce a stare senza la felpa sotto alle pesanti coperte. Mi accorgo che gran parte del freddo gelido della steppa russa entra all’interno a causa di una fastidiosa fessura creatasi tra il legno di rivestimento del treno ed il finestrino. Tentando di chiuderla invano con alcune buste, con una giacca e con altri materiali, perdo le speranze e decido così di indossare cappello e sciarpa e tentare di assopirmi. Fortunatamente il sole pomeridiano del giorno seguente scalderà l’ambiente ed il clima all’interno del treno si farà sempre migliore, rendendosi progressivamente più tollerabile all’altezza della città di Samara, dove grazie all’aiuto di altri passeggeri riesco a chiudere la fessura con un tocco di nastro adesivo ed alcune buste.
Il treno passa da sperdute lande con piccoli villaggi immersi tra fango ed ultimi residui di neve, fermandosi saltuariamente in qualche abitato per raccogliere passeggeri e fare piccole pause rifornimento. Durante queste fermate il treno comincia a riempirsi di persone, i tratti somatici cominciano a cambiare e ci si accorge
Il treno passa da sperdute lande con piccoli villaggi immersi tra fango ed ultimi residui di neve
Già dalla fine del secondo giorno, il vagone sembra diventato una grande famiglia che tenta d’uccidere il tempo ed i problemi con la solidarietà reciproca e la collaborazione. Il treno giunge con il passare delle ore in prossimità del confine kazako dove, in un piccolo villaggio, altre famiglie di uzbeki, per lo più della valle del Fergana, salgono sul treno portandosi con sé un bel cumulo di bagagli e viveri per la traversata.
Durante il trascorrere delle ore, l’affascinante samovar produce ininterrottamente del buon tè caldo che accompagna il vociare continuo dei passeggeri. Tra un tè e l’altro in alcune postazioni saltano fuori le carte da gioco e canti dal sapore tradizionale. Le chiacchierate con svariati passeggeri si sprecano tra incomprensioni e sorrisi d’intesa, sino a che sul calar della sera si passa velocemente alla vodka. I bambini più piccoli vanno a letto, i più giovani si svincolano dallo sguardo attento delle proprie famiglie ed il suono dell’apertura delle bottiglie con l’inconfondibile aroma dell’alcool pervadono il vagone. Non mi accorgo più del freddo e la notte passa molto in fretta, l’alcool produce i suoi effetti e dopo un’ultima sigaretta ammazza tempo, una profonda nebbia assale i miei ricordi successivi.
Il sole del mattino si alza lentamente nella sconfinata steppa tra la Russia ed il Kazakhstan; è ormai da diverse ore che non noto la benché minima presenza di un essere umano o di un villaggio all’esterno del finestrino.
L’immensa steppa che il treno sta attraversando verrà sostituita con il passare delle ore ad un deserto ricco di colori e profumi svegliatisi grazie alla stagione primaverile che si fa largo lentamente tra il gelido letargo invernale. Si cominciano ad intravedere piccoli villaggi, per lo più agglomerati di quindici case e piccole moschee costruite su di un’unica via sterrata. Cavalli, carovane di asini, pastori e carretti trainati da muli seguono la via del treno, che risponde alle grida dei pastori con grandi fumate e fischi continui che creano un’atmosfera d’antichità in un deserto semi inanimato. Il confine russo è superato, siamo ormai nella steppa kazaka ed il sonno la fa da padrone per quasi tutta la giornata.
Tra un pisolino ed una sigaretta mi accorgo che il mezzo è arrivato a Turkistan, antica città kazaka mèta di pellegrinaggio di fondamentale importanza per molti musulmani kazaki e dell’Asia centrale. Scendo dal treno e dopo la freddezza respirata in Russia tra le vie di alcune città, il profumo degli shashlik (spiedini di kebab tipici dell’Asia centrale) m’inebria i sensi. Il profumo delle spezie ricopre l’aria che mi circonda ed il canto malinconico del Muezzin da un minareto mi lascia intendere che sono entrato in Asia centrale. Girovago per un po’ di tempo nelle vie intorno alla stazione e mi rendo finalmente conto della fortuna di trovarmi in una città che anche per pochi minuti riesce a donarti una certa emozione. All’orizzonte la splendida cupola blu del Khwaja Ahemad Yasavi, mausoleo di un poeta e mistico musulmano kazako, m’introducono in quella che lo stesso Marco Polo descrisse nel suo milione, la famosa via della seta.
Il viaggio prosegue verso l’ultima notte da passare nel treno, il Kazakhstan scorre in tutta la sua immensità, transitando per zone per lo più desolate e steppose. La grande collettività della terza classe è ormai sulla via da svariati giorni ed al suo interno ogni cosa è ormai condivisa a pieno. Si scende in qualche villaggio in compagnia cercando viveri per tutti, si mette in comune anche la più piccola delle briciole di pane e ci si addormenta quasi all’unisono, cullati dal dolce canto di una madre che ninna il figlio tra le proprie braccia, accompagnato al continuo tentennare del treno sui binari.
S’intravedono le prime colline, il paesaggio si rende sempre più vivo, l’Uzbekistan e la sua capitale sono sempre più vicini. I colori primaverili dei fiori s’impongono sulla monotonia giallastra della steppa, gli abitati si fanno sempre più frequenti e la frenesia per i preparativi dell’arrivo sostituisce il silenzio delle ore precedenti.
Tashkent è ormai ad un fischio di treno, il tintinnare dei bicchieri pieni di vodka segnano il brindisi finale alla capitale uzbeka. L’odissea poetica sino all’Asia Centrale è terminata, si fanno largo i sorrisi ed il treno si ferma, guardo una madre che abbraccia il figlio lavoratore e con l’ultimo nostalgico sapore di alcool sulle labbra penso: “Sono arrivato, adesso tocca al resto, adesso inizia il vero viaggio”.