Quando volevamo l’erba
Presi il foglio da sotto l’armadio e – sì – provai un poco di ribrezzo. Lasciando perdere i gatti di polvere che lo stavano mordendo, concepii anche che quello non era un foglio ma una bustina di lievito secco, oramai anche bell’e scaduto qualche anno prima. Di bustine di lievito ce ne aveva portate in regalo Laura quando seppe del nostro ultimo arrivo: la macchina del pane. Tu ci butti dentro gli ingredienti e il gioco è fatto. Aspetti un’ora e quaranta (tre ore se vuoi il pane proprio buono) e quando inizi a sentire il profumino giusto hai una voglia di mangiare che nemmeno un rinoceronte potrebbe saziarti. Poi è bello mangiare il pane caldo.
Bello.
Quante volte utilizziamo la parola “bello” così come deve essere usata? Ha anche un suono bello, la parola bello. La bellezza. Di stare con una persona. Della natura. Di un quadro. Etichettare qualcosa con “bello” richiede ragionamento e sensibilità. Amore per quella manciata di secondi di riflessione. Il bello della vita.
Vabbè. Fattostà che abbiam iniziato a sfornare pagnotte che neanche un panificio. Pane alle olive, Pane alle noci, pane con la cipolla, pane bianco. A volte anche azzimo perché – segnatevelo nel cervello che questo è uno dei messaggi più importanti della vita – se il lievito tocca subito il sale, mica ti fa lievitare il pane, eh! Bisogna saper dosare ed aspettare. Quanta saggezza dona cucinare! Poi tutti che volevano copiarci: il ragazzo della mia migliore amica il giorno dopo che è venuto a trovarci s’era messo in testa di fare il panettiere, per esempio. Per fortuna non ha mollato il suo lavoro. Non di solo pane vive l’uomo.
Mi ritrovai a sorridere e, con la bustina del lievito in mano scesi le scale alla ricerca di qualche sacco da utilizzare come porta spazzatura. Dentro casa non ce n’erano più, allora uscii in giardino. Era l’ora in cui il sole fa briluccicare l’erba. Anche la parola briluccicare mi piace. Però non dite mai ad una ragazza che le briluciccano gli occhi, rischiate di inciamparvi e rovinare il momento romantico. Ma all’erba anche se inciampi non gliene frega niente. Ha solo paura di essere calpestata, ma solo quando è giovane e cresce per la prima volta.
Volevamo l’erba a far da coperta alla terra (anche per il fatto che due gocce di pioggia avrebbero trasformato tutto in fango). Fu una delle prime cose che facemmo. Io ed Elena, la mia coinquilina veneziana. Ci improvisammo giardinieri e con un rastrello di fortuna e una zappa arrugginita preparammo il terreno. Poi io chiesi al vicino (ancora restìo a dare confidenza ai nuovi arrivati) dove potevamo trovare una serra per comprare dei semi d’erba. Mi indicò la strada, inforcai la bici, mi persi e mi ritrovai, trovai la serra, comprai l’erba “che cresce anche se non vuoi e in tutte le stagioni” come mi disse la serraia, mi persi di nuovo e tornai a casa. “Elena! Abbiamo l’erba!” gridai. E subito il vicino (l’altro) pensò di chiamare la polizia.
La piantammo. Non ci bastarono tre scatole, ne andammo a comprare altre. Io non ci speravo crescesse. Senza farmi vedere (ma sono sicuro che il vicino, l’altro, stesse facendo delle fantasie su di me e sul mio rapporto con chissà quale erba) mi distendevo e cercavo di carpire qualche punticina verde, che magari era fuoriuscita in superficie. La mia speranza era sempre più flebile. Ma dopo otto giorni, tra sole e pioggia e i freddi tiepidi d’ottobre, il primo filo frantumò un millimetro di terra, con tutta la forza che solo la natura può dare. Me l’immagino al rallenty la scena. E chissà che rumore sottile fa il terreno rotto da un filo d’erba. Sorridemmo, io e Elena. La bellezza della natura. Saremmo stati pronti a piantare un albero, ma la lezione sull’essere pazienti non l’avevamo ancora imparata.
Mi distesi. Sull’erba, questa volta, ad assaporare gli ultimi raggi di quel sole così arancione che sembrava marmellata.
(continua…)
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