Matera, sassolino nella roccia
Quella pietra grigia e fragile è dappertutto, e si ha l’impressione, arrivandoci, che Matera sia sempre esistita, prima ancora che i suoi abitanti vi vivessero, come se l’avessero trovata così, bell’e pronta, confezionata da qualche divinità soprannaturale. Quel che più colpisce, nell’accingermi al racconto di questa breve evasione in terra lucana, è che, pur essendoci già stato, i particolari conservano nella memoria lo stupore primigenio di chi scopre un luogo per la prima volta. Matera, per dirla come la racconterebbe un bambino, è un sassolino. E’ terra e fango, è passione primordiale, è lo stupore di trovarsi recapitati all’interno d’un gigantesco presepe. Nella confusione delle sue vie, dove sempre si calpestano soffitti per quanto in basso ci si trovi, nel dedalo delle sue cavità sottratte alla roccia da mani operose ed abituate al lavoro, alberga lo spirito d’un borgo che è vivo e vitale, e che è in grado d’incantare e stupire non solo il visitatore occasionale, ma anche e ancora chi ci ritorni. Additata un tempo a vergogna nazionale a causa delle condizioni di vita dei suoi abitanti rurali, oggi Matera emerge in tutto lo splendore della sua unicità, e potrebbe dirsi vergogna, piuttosto, il non averla mai vista. Se avrò occasione, in futuro, di suggerire un itinerario ad un amico straniero non mancherò: vai a Roma, caput mundi, certo; visita Firenze, patria dell’arte, sicuramente; tocca Venezia e la sua laguna, pure. Vedi Napoli anche, ma dopo non morire. Non senza essere stato a Matera.
Arriviamo in città che è tarda serata, non dovevamo andarci noi, ed è stato tutto di fretta. La volta precedente era estate, ed è stato incantevole vedere il paesaggio cambiare e farsi irsuto, inospitale, acido, da pianeggiante che era, giungendovi dalla terra dei vini e degli oli di Puglia. Stavolta no. Natale è alle porte; è pieno inverno, fa freddo e piove. Anzi, ha appena smesso di piovere, e la città si presenta a noi perfettamente adeguata al suo vestito bagnato. La pioggia vi scivola sopra, e scorre lungo i declivi lisci che nei millenni ha saputo costruirsi per ottenere ospitalità nella terra. Una terra fatta d’una roccia che è liscia talmente da sembrare morbida, luccicante ai bagliori delle luci stradali, e scivolarci sopra sarebbe veramente roba da poco, a meno di non prestare grande attenzione, e non è proprio il caso di ricredersi sulle proprie ossa intorno alla sua compattezza.
Ora di cena, è il caso di trovare ospitalità. Ad offrircela è un locale dei più tipici, contenuto in quella che un tempo doveva essere una cisterna. Sui muri, tra sapienti giochi di luci che esaltano la bellezza della roccia madre, è possibile intravedere ancora le linee passate in eredità da quelle che un tempo dovevano essere i livelli dell’acqua. Matera è in effetti tutta così, e il suo sistema idrico urbano una meraviglia d’ingegno da far accapponare la pelle, di quelli che ti domandi basito come diavolo abbiano fatto. L’atmosfera è conviviale, l’ospitalità familiare, quella tipica del Sud più autentico, dove il sorriso la fa da padrone e la soddisfazione dell’ospite è ragione di vita. Appartata in un angolo, la natività d’un grande e tipico presepe sembra perfettamente a proprio agio nella cavità naturale che oggi è diventata ristorante. Conoscere chi s’intrattiene ai tavoli è un dovere da queste parti, ed esula da ogni ragionamento opportunistico o di commercio: è semplicemente un modus vivendi, appena temperato dalle necessità materiali della vita. Così la pensano e la vivono Nicola ed Angela, che condividono con gli ospiti vita e mestiere, facendo d’ogni cliente un commensale.
Il capitolo gastronomico meriterebbe un approfondimento particolare, e ci ha convintamente soddisfatti, nel corpo come nello spirito: nella varietà, nella misura e nel gusto, nei colori e nella presentazione dei piatti, nell’alternarsi sapiente di tradizione e innovazione, di dolce e salato ed agrodolce. Come a voler suggerire, ribadendolo, che la semplicità e il netto declinare dei sapori sono la chiave del successo, e forse il segreto ben custodito di luoghi come questo, dove la professionalità è tanto grande da non emergere nemmeno, perché pura come l’alcool in grappa e confusa in altro concetto, che si chiama molto più banalmente passione per il proprio lavoro. Tornando a Matera, che certo ci rivedrà, non potremo mancare di far ancora tappa al ristorante Caveoso, certo per mangiare bene, certo anche per stringere ancora la mano di gente amica. All’uscita dal Caveoso l’aria è più fredda di prima, ma non tanto da gelare il ricordo della calda accoglienza riservataci.
Ci risvegliamo nel lusso d’un ambiente che si direbbe profanato dalla nostra presenza, ché non avremmo detto mai che la pietra avesse un’anima, e potesse esser calda. La stanza è, come tutto qui in giro, ricavata in una noce di roccia; lo spazio intorno ampio, l’arredamento cortese e discreto, nei toni candidi della tavolozza della terra nuda. Il privilegio che la sobrietà offre traspare dai dettagli: gli applique alle pareti s’informano ai sassolini, la specchiera è attorniata da un mosaico di pietruzze finemente incollate a mano da un artista che non siamo riusciti ad identificare, tanta era la voglia di commissionarne una simile: l’identico è infatti impossibile a darsi, come in tutte le lavorazioni artigianali. La nuda pietra del pavimento sostiene il passo, e non scricchiola come i tanti parquet o le soffici moquette con le quali s’è soliti incartare gli alberghi. Qui no: ad accoglierci sarà un morbido letto; ad ospitarci una terra aspra e ospitale insieme, sincera come solo la natura sa essere. Esco fuori: la sera è limpida, si vedon tante stelle che è impossibile non meravigliarsene. Di notte Matera è un gigantesco presepe incastonato nella roccia, e la terrazza dell’hotel Belvedere ne offre un impagabile scorcio. Non potreste dire dove inizia, o termina la roccia; dove iniziano o terminano le case. Matera è roccia; la roccia è Matera. La montagna e la città sono un tutt’uno perfettamente fuso insieme. Non mancano che i canti dei pastori e la stella cometa a coronare la suggestione delle emozioni, realizzando del tutto la rappresentazione del Natale prossimo venturo.
La mattina in albergo rivelerà i particolari che erano sfuggiti alla frettolosa ricerca di ristoro, e scopriremo che il titolare dell’hotel Belvedere, restauratore di professione, ha inteso ridar nuova vita a una miriade d’oggetti d’arredo, riproponendoli di soppiatto nell’ambiente, e inventando per loro ruoli nuovi, in una seconda vita che non avrebbero mai scommesso di poter avere. Il massello di pietra dove le antiche lavandaie pulivano i panni per la via è adesso una siepe; a tradirne l’uso precedente è rimasto il foro dal quale defluiva un tempo, nera e schiumosa, compiuta la propria opera, l’acqua saponata. Una piccola macina che sminuzzava il pastone dei volatili da cortile è adesso ornamento in terrazza, e sono innumerevoli le conchiglie fossili sottratte alla roccia che fanno bella mostra di sé in una vetrina appositamente realizzata, come innumerevoli sono quelle ancora nella roccia incastonate, tanto che basta volgere lo sguardo in un punto a caso d’essa per scorgerne almeno mezza dozzina, testimoni del tempo in cui la gravina riposava sommersa.
E chissà quali canti d’enormi balene riecheggiavano laddove oggi noi ammiriamo, stupefatti, il profilo d’una città sorniona e assopita, che sembra sempre dormire senza dormire mai, e che con quel suo essere sottratta al tempo, e magicamente in esso sospesa, rende facile pensare che se il mondo smettesse d’esistere, Matera sarà sempre lì a far da testimone.