La dignità del fango
FANGO: Deposito naturale costituito da argilla contenente sostanze organiche e inorganiche, frammiste ad acqua.
Questa è una delle tante possibili definizioni del termine trovate su alcuni dizionari italiani. A colpirmi è l’aggettivo naturale. Sarebbe appropriato – penso – se il fango in questione non avesse completamente ricoperto strade, automobili, negozi, opere d’arte, vite umane. E non per la prima volta, ma per l’ennesima. In realtà non è colpa del fango se ancora una volta ci ritroviamo a vedere disastri colorati di melma. La colpa è degli uomini, che vanno a costruire dove Madre Natura aveva creato un bel fiume, o alle pendici di una collina argillosa. La colpa è di quegli uomini che, nonostante i ripetuti episodi che in passato avrebbero dovuto far loro imparare la lezione a memoria, non hanno ancora preso i provvedimenti indispensabili per scongiurare nuove tragedie. È di quegli uomini che, dopo aver ricevuto premi in ragione di compiti per cui erano comunque pagati profumatamente, poggiano la testa sul cuscino, pur sapendo di non aver risolto il benché minimo problema. La colpa è di quelli che fanno a scaricabarile invece di rimboccarsi le maniche e studiare giorno e notte affinché si arrivi alla soluzione.
Di certo la colpa non è del panettiere che ancora una volta, nel giro di pochi anni, si ritrova solo e abbandonato a spalare via il fango dalla sua bottega. Tanto meno di quei ragazzi, “gli angeli del fango”, che raggiungono la zona colpita e si prestano per dare una mano. Una mano a cacciar via dalle case quel macello; una mano a ripulire la merce che resta nei negozi e a salvarla dagli sciacalli; una mano a lavare e ad asciugare le poltrone dei teatri e i copioni di commedie che oggi sembrano ossimoricamente tragiche. Al pari delle vite spazzate via dai torrenti e dai fiumi esondati, quasi come a dire che la natura non ce la fa più, non può più sottostare a questa invadenza continua dell’uomo che crede di potere tutto. Costruire, disboscare, coprire, tagliare.
Ma nel fango c’è anche tanta dignità. Quella delle persone, di tutte le età, di tutte le parti d’Italia, con gli stivaloni di gomma e con una sola arma, la pala, per salvare il salvabile e ricominciare. Con la speranza che questa volta sia davvero l’ultima. Perché non se ne può più di aver paura che una pioggia appena più insistente distrugga in poche ore anni di fatica. Perché poi lo Stato è spesso poco paterno in questi casi e le vittime molto orfane. Orfane d’Italia.
Il fango al contatto con l’aria si asciuga, si indurisce, si rapprende e intrappola. La sua superficie si crepa e diventa arida. Proprio come il Grande Cretto Nero di Alberto Burri, esponente della poetica dell’Informale materico. L’opera è realizzata in acrovinilico su cellotex ed entrò a far parte delle collezioni permanenti del Museo di Capodimonte, in occasione della mostra antologica del 1978, dedicata proprio a Burri, che decise di donarla a Napoli. La parola “cretto” significa letteralmente crepa, spaccatura. E infatti il Grande Cretto Nero potrebbe essere una rappresentazione ingrandita delle crepe generate dal tempo e dagli agenti atmosferici sullo strato superficiale di un dipinto, oppure la crosta terrestre, crepata dalle scosse di un sisma. Quindi in sé l’opera non ha alcun significato nascosto e metaforico, ma risponde alla naturale dinamica “causa-effetto”, cioè semplicemente racconta gli effetti provocati dall’energia sulla materia.
Come l’energia del fiume che sfonda i suoi argini e travolge ogni cosa, noncurante delle conseguenze che provocherà, in quanto mosso dalla naturale dinamica causa-effetto, dove la causa è l’incuria dell’uomo e l’effetto è la devastazione.