Lora Gheghliorvdi è attesa al gate, ultima chiamata!
Episodio pilota. Ciak!
Atto uno, scena prima. Voce esterna. Sì. Confesso: stavo per perdere l’aereo che mi avrebbe portata a Las Vegas, Nevada. Proprio quella, la città dove “what happens in Vegas, stays in Vegas”, dove quello che combini tra le mura di casinò spaziali, ricostruzioni in miniatura delle strutture architettoniche più conosciute al mondo, luci psichedeliche, chiese con preti vestiti da Elvis,e tanto altro ancora, non verrà mai rivelato.
Ma aspettiamo un momento… come ci sono arrivata fino a qui? Suono di pellicola che si riavvolge, la musica di sottofondo passa da ritmata in stile rock-a-billy a musica da camera, il film riprende dal momento in cui, all’aeroporto di Venezia, Tessera, Marco Polo, una giovinetta si accingeva sola soletta ad oltrepassare i gate d’entrata dopo aver salutato commossa i familiari, i quali con sguardo confuso si chiedevano perché, dopo essere finalmente riuscita a realizzare il suo sogno, si sentisse triste invece che sprizzante di gioia. Mistero. Il perché non è dato saperlo, se si svelasse tutto durante il primo film, non ci sarebbero prequel, sequel, numero uno, due, tre, il ritorno, l’inizio, la fine, l’erede e l’atto finale. Sappiamo solo che la destinazione era quella: Boston, Massachusetts, Stati Uniti d’America – via Madrid, Spagna, Stati Uniti d’Europa.
Il primo lungo viaggio, per un ancora più lungo tempo di permanenza, era cominciato a fine agosto. In Italia il sole scalda ancora abbastanza in questo periodo, ma in Massachusetts iniziano già ad esserci delle giornate un po’ “chilled”, frescoline. Siamo più o meno alla stessa altezza a livello di parallelo terrestre? Non importa, il nostro carissimo pianeta sa come farsi “amare” anche per questo.
Una volta scesa dall’aereo e arrivata alla zona dogana sono un po’ scombussolata ma non triste. Sono in America, sono a casa. L’America che avevo studiato e ristudiato per anni, con i suoi usi e costumi, la sua lingua, anzi le sue lingue, le culture e le letterature, mi accoglieva a braccia aperte senza fare tante storie. Quelle le avevano già fatte in Italia, nei dodici mesi che avevo passato a raccogliere carte e documenti di ogni genere, nel colloquio con l’assai poco simpatico ambasciatore in una Milano piovosa e ventosa, e nel conto in banca che non c’era ma che per fortuna veniva rimpinguato dalla borsa di studio che mi aveva permesso di iniziare la lunga trafila del visto F1 da studente.
Welcome to the States, mi dice la guardia, mi si scalda il cuore (ancora adesso), gli sorrido, lo ringrazio e cerco l’uscita. Sole accecante, stanchezza del viaggio, fuso orario assassino, un po’ forse anche rimbambita di mio, invece di prendere un carrello, trascino Cip e Ciop, che immagino abbiate capito siano i nomi delle mie valigie, per metri di marciapiede alternando una e l’altra finché vedo la Salvezza. No, in realtà si chiama Barbara, ed è la mia supervisor nonché boss, nonché concittadina trasferitasi anni or sono, grazie alla stessa borsa di studio. La storia di per sé, prometteva bene, sono le scelte che hanno fatto le eroine che sono diverse. Una ha portato a sani e proficui risultati, l’altra, stolta, la mia, ha condotto la più giovane al ritorno a casa dopo un anno, in una splendida Italia florida e promettente… sì, a chi gliela racconto? Ecco. Ho detto tutto.
Cambio scena. Siamo a casa di Barbara. Mi accolgono Cooper, il cane che mi ha fatto compagnia per settimane durante le vacanze natalizie di quell’anno, “caro e bello SupaCupa“, e la gatta K. (il vero nome è marchio registrato, nda), che dopo la diffidenza iniziale veniva a dormire con me la notte e mi svegliava la mattina facendomi sentire meno sola mentre facevo da “babysitter” alla casa della mia supervisor in trasferta. Ritorniamo alla scenografia: nell’aria ci sono suoni strani, ci sediamo a mangiare fuori, sul patio della tipica casa americana, ma le mie orecchie non si sono ancora abituate a questo strano silenzio-non silenzio. E’ una sensazione strana: probabilmente è perché i luoghi sono talmente vasti che il suono si perde, ma certi rumori, naturali, che ancora non riconosco, si percepiscono bene, distinti e soprattutto quasi potenti. Scopro dopo poco che è il canto delle cicale, tante cicale, tantissime cicale, sommato al suono martellante dei picchi. Mille alberi, mille picchi. Mille toc toc con mille cri cri. Fenomenale. Ad essere sincera, se non lo sentite da voi, è difficile rendere l’idea, quindi se mai ne avrete l’occasione, fate un salto in Massachusetts e ascoltate i rumori della natura. Se in più doveste capitarvi nella stagione del foliage, vi accadrebbe d’osservare come la flora della zona del New England passi dalla scala cromatica del verde al rosso senza nemmeno accorgersene, rendendovi partecipi di un evento naturale di grande effetto.
Veloce ritorno alla scena movimentata di Las Vegas. Questa volta, immaginata. La protagonista del nostro film-racconto “C’erO una volta in America”, con chiaro riferimento allo storico film di Sergio Leone, sta visualizzando, una volta sistematasi per qualche giorno nella sua camera di East Longmeadow, come sarà la sua vita per i futuri mesi a venire. Il regista riattacca la musica rock da colonna sonora, lei sposta la tendina della finestra accanto al letto, scruta il mondo nuovo in cui finalmente ha messo piede, e lo sguardo perso nel vuoto, con un po’ di timore misto a malinconia, contornati dal desiderio di esplorazione, si fissa nella lontananza della collina all’orizzonte… e Living, loving, she’s just a woman!
Scena finale. Atto primo in dirittura di arrivo. Suona turi turi tuuu, wua wua wuaa, che se non si fosse capito è la sound-track di un altro film di Mr. Sergio Lion, western dal conosciutissimo motivetto di Ennio Morricone e che sicuramente dopo averci pensato vi tornerà in mente. La sprovveduta protagonista è lì, immobile, al centro dello schermo, all’entrata del College dove passerà il resto del tempo che è appena cominciato, negli States. Ferma. In piedi. Ai lati del corpo le due Cip e Ciop, come due pistole, pronte ad esplodere. Nell’aria qualche foglia che cade a spirale preannunciando l’arrivo dell’autunno anticipato, i capelli scompigliati e un gran punto di domanda che lampeggia sopra al capo. No, quello no, ma dall’espressione lo si può immaginare. Al massimo lo aggiungiamo con gli effetti speciali. La musica da western finisce. Comincia quella rock del finale di Transformers, ma stavolta non è Optimus Prime a mandare un messaggio agli Autobot in arrivo sulla Terra. E’ Lora Gheghliorvdi che vi parla, preparatevi ad essere i personaggi di un film-racconto che vi farà fare un salto, indietro nel passato, o avanti nel futuro, negli Stati Uniti che ha vissuto per troppo poco tempo.
In attesa di film-raccontarvelo in diretta…
Fine primo episodio. Pubblicità.