La lista dei desideri
Dovevo trovare la porta blu. Avrei voluto farmi un tuffo, lavorare la terra, fare un giro in vespa, portare Vasco in cima all’Epomeo. Eppure non riuscivo a far niente se non pensare a quella dannata lista scritta da mia madre con i suoi undici desideri. Ricorreva, più volte nella mia testa, il decimo punto: scoprire cosa c’è dietro la porta blu. Ero convinto che quello fosse solo un dannato modo per farmi impazzire, per farmi cercare qualcosa che non c’è. Magari quella lista di cose era solo uno scherzo, una delle solite bizzarre idee di Lucia, che non avrebbe mai portato a termine. Lei era nata per questo, per concludere poco e niente. Una delle poche cose che portò fino in fondo nella sua vita – dopo nove mesi di gestazione – sono io. Il resto l’ha lasciato tutto andare, sospeso per aria. Ma io non ero come lei.
Avrei trovato quella porta blu, eccome se l’avrei trovata. Mi diressi verso l’aia. L’aria era fresca. Il vento non disturbava, piuttosto pareva accompagnare i miei pensieri verso la giusta direzione.
Avrei trovato quella porta blu, eccome se l’avrei trovata. Mi diressi verso l’aia. L’aria era fresca. Il vento non disturbava, piuttosto pareva accompagnare i miei pensieri verso la giusta direzione. Rimasi per qualche attimo ad osservare il paesaggio. Le viti una in fila all’altra, fusti giovani e sinuosi. E poi il mare, così tanto che sembrava non conoscere fine. La mia vespa mi aspettava. Fischiai, invitando Vasco a prendere posto tra le mie gambe. Arrivò con passo lento, quasi pesante, muovendo la coda con ritmo cadenzato, prima a destra e poi a sinistra. Alzò il muso verso di me e con un salto degno del miglior olimpionico si infilò tra i miei piedi.
Il motore borbottante della mia Pesetas copriva ogni altro rumore. Non sentivo auto, gabbiani, bambini. Non sentivo neppure Vasco che se ne stava quieto mentre le curve scendevano al porto. Lasciammo la vespa vicino al muretto di via dell’Osservatorio e ci dirigemmo verso il centro. Mi armai di cartina, come il miglior turista nord europeo, e decisi di passare in rassegna ogni strada, piazza, vicolo. Avrei trovato la porta blu. Avrei suonato a ogni campanello, chiesto in giro, parlato con i muri pur di capire cosa teneva nascosto quel luogo citato da mia madre.
Non mi chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto, avevo la certezza che ce l’avrei fatta.
Per la prima volta nella mia vita non ebbi fretta, il tempo – anzi – mi sarebbe stato amico.
Per la prima volta nella mia vita non ebbi fretta, il tempo – anzi – mi sarebbe stato amico. Assaporai quella giornata che aveva i sapori dell’inquietudine, della curiosità inappagata, della serenità e della rilassatezza. Vasco annusava ogni centimetro di asfalto. Io guardavo le cupole delle chiese che incontravo, le case così vicine che potevi parlarti da una finestra all’altra. Arrivai alla spiaggia, passai dalle baracche tinte di un azzurro intenso e poi proseguii lungo il corso principale, quello dello struscio estivo. Qualche bottega con la saracinesca aperta si colorava di peperoncini rossi, marmellate invitanti e lunghe file di bottiglie di liquori locali: il tradizionale limoncello, il rucolino, l’arancello e qualche scaffale di grappe aromatizzate. Non mancavano neppure le ceramiche dipinte a mano, dove ritrovavi le case dei pescatori, la chiesa del Soccorso, il Castello.
Entrai in ogni negozio, passeggiai a lungo sulla sabbia fredda, osservai i cognomi vicino a ogni porta fino a che non trovai la mia. Non riuscii a parlare, neppure a essere felice. Volevo solo aprirla. Violentare quel segreto, buttarci luce. Feci due passi indietro e guardai meglio quel portone a due ante del tipico azzurro greco, sormontato da un arco a tutto tondo. Era proprio bella la porta blu. Provai ad avvicinarmi di nuovo, per capire chi abitava in quella casa, se era qualcuno che conoscevo, che avesse avuto a che fare con Lucia. Eppure niente. Un campanello bianco. Nessun nome, nessun cognome. Provai a suonare. Nessun rumore, trillo, suono. Niente. Bussai, senza ottenere alcuna risposta. Mi irritai. Divenni nervoso e rabbioso. Entrai nella farmacia lì vicino, con la scusa di un analgesico. Provai a chiacchierare con il vecchio medico con il camice bianco dietro al bancone. La sua età mi dava garanzie di memoria sugli abitanti dell’isola. In fondo lì tutti si conoscevano. Tutti portavano lo stesso cognome. Una sfilza di parenti che avresti potuto dare corpo a intere squadre di calcio. Per me, che venivo dalle grandi città dove circolano miliardi di cognomi diversi, quella cosa aveva dell’incredibile. Sull’isola si chiamavano tutti Di Meglio, Mennella, Colella, Buono, Mazzella, Ferrandino. E se tutti si conoscevano e se tutti erano mezzi parenti, il vecchio farmacista sicuramente avrebbe potuto conoscere chi abitava nella casa dalla porta blu. Così provai ad entrare nell’argomento, dopo aver discusso dei miei continui mal di testa.
Presi in mano la mia Nikon e dissi: “Quest’isola è veramente interessante per chi ama la fotografia, ogni angolo è ispirazione”.
Lui mi guardò. Non era particolarmente loquace. Rispose con un “Già”. E mi liquidò poi con il consueto “Buona giornata, a rivederla”.
Ricambiai il saluto ma, prima di varcare la soglia dell’uscita, tornai indietro, con noncuranza.
“Mi scusi, sa chi abita in quella casa con la porta blu?”
Mi scrutò di nuovo, questa volta con una sorta di dubbio interesse negli occhi.
“Non lo so, mi dispiace. La proprietaria non è dell’isola. Viene qui di rado, qualche volta a primavera. A volte d’estate.”
“Capisco. Quindi non sa neppure il suo nome? Ma è una signora anziana?”
“No, è una donna. Vicina alla sua età, credo. Ma non so altro.”
“La ringrazio, buona giornata.”
“Perché la cerca? Se posso permettermi...”
“Solo perché vorrei fotografare cosa c’è dietro la sua porta. E mi serve il permesso della proprietaria. Spero di incontrarla a primavera, allora.”
“Forse, glielo auguro.”
Uscii, alzando la mano in segno di saluto.
Mi sedetti sull’ultimo dei tre scalini della porta blu. Appoggiai la testa all’anta pesante. Per la prima volta nella mia vita, provai a immaginare cosa ci fosse dietro quelle mura. Provai a immaginare la fisionomia della proprietaria di quella casa. Gli occhi, i capelli, il modo di vestire. Provai persino a sentirne la voce. La pelle chiara, macchiata di qualche delicata lentiggine, lasciava spazio a due occhi grandi e trasparenti. La sua magrezza la rendeva elegante mentre si muoveva in freschi abiti di lino. Portava un capello a larga tesa, per coprirsi dal sole e dagli sguardi della gente dell’isola. Entrò silenziosa in casa. Stavo sognando a occhi aperti. Non era da me. Quella donna mai vista si era impossessata dei miei pensieri. Adesso avevo un solo obiettivo. Trovare il modo di entrare in quella casa, con il suo permesso. O senza.