Sono andato a Kaliningrad alla ricerca di Königsberg
Sapevo che non li avrei mai trovati, a casa loro, in quel posto. Ero certo che non li avrei trovati in nessuna strada, in nessun edificio, in nessun luogo e in nessuna memoria. Dovevo comunque provarci, mettermi la coscienza in pace e continuare, andare oltre, o al limite solo avanti. Immanuel Kant e Hannah Arendt sono stati due fondamentali compagni di Università. Kant ha cercato di insegnarmi che qualsiasi cosa porti all’incremento e al chiarimento della verità è degno di meritare attenzione. Arendt ha cercato di insegnarmi l’importanza della meditazione sulle nostre opinioni, e la centralità nel pensiero umano di un dialogo riflessivo, all’origine dell’azione morale. Avessi appreso anche solo un centesimo dell’immanenza di quelle lezioni…
Forse per via di questo fallimento, ho deciso di andare nel luogo della loro formazione; quell’antica culla della cultura occidentale che ha prodotto la migliore filosofia contemporanea. E sono andato a Kaliningrad (Russia), alla ricerca di Königsberg (Prussia), per un’intera estate e qualcosa di più. Era l’anno 2003.
Kaliningrad oggi è una città all’interno di una regione (c.d. ex clavee Russa) stretta tra Polonia e Lituania, direttamente affacciata sul mar Baltico, dal quale da tempo immemore si estrae l’ambra; ad esempio quella forgiata per costruire la scomparsa Sala d’Ambra a Palazzo Tsarskoe Selo di San Pietroburgo.
Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, l’attuale regione di Kaliningrad si chiamava Königsberg. Già sede ufficiale dell’Ordine Teutonico, nel XVI secolo la città di Königsberg diventava un importante centro politico e culturale della Prussia, arricchito da splendidi e ineguagliati palazzi neoclassici, ponti gotici, strade curate nei minimi dettagli e un maestoso Castello alle pendici del quale visse la sua giovinezza Hannah Arendt e tutti i giorni della sua vita Immanuel Kant.
Oggi, di quel passato glorioso non c’è più quasi nulla nella città di Kaliningrag, se non qualche cenno fastidiosamente conservato dalla intellighenzia sovietica e parzialmente restaurato dalla perestrojka russa. L’antica culla della civiltà prussiana, le terme predilette da imperatori e ricchi nobili di tutta Europa, sono un ricordo conservato in cartoline d’epoca e fotografie sbiadite. Immensi palazzi sovietici, costruiti da lastre di cemento armato accatastate in fretta e furia che col passare del tempo crollano, hanno preso il posto di viali alberati incastrati tra file di botteghe rinomate in tutto il continente. I parchi pubblici dove Kant incontrava i suoi studenti sono ora sommersi da edifici costruiti durante gli anni sessanta. Quando l’esigenza era quella di ripopolare una regione che nell’aprile del 1945 era stata svuotata a seguito della fuga dei tedeschi residenti di fronte all’avanzata delle truppe sovietiche.
Oggi Kaliningrad è una città caotica di qualche centinaio di migliaia di persone, immersa all’interno di una tanto impenetrabile quanto deserta foresta. Tra le sterpaglie e nelle strade periferiche della città, ogni tanto riaffiorano quei mattoni rosso fuoco con i quali era stata costruita Königsberg. Una città che in pochi anni ha trasformato la sua geografia, distruggendo il passato per la bramosia di affermare il presente. Con la costruzione del Muro di Berlino, la zona affacciata sul mar Baltico all’interno della regione di Kaliningrad è diventata presto una invalicabile base missilistica russa.
In epoca post disgelo, quegli hangar con missili puntati verso l’Italia sono stati abbandonati alle intemperie di una natura che qui porta vento tagliente e freddo pungente. Nella palude creata dallo sconfinamento del mar Baltico sulla terraferma, cammini su quei crateri artificiali svuotati dalla minaccia di una guerra termonucleare totale, oppure entri nei capannoni di quella guarnigione di 300/400 militari sovietici isolati dal mondo, per anni seduti in attesa di una telefonata che avrebbe messo fine alla parola “umanità”.
Quel connotato strettamente militare dato al ripopolamento di Königsberg/Kaliningrad, per mezzo di un trasferimento forzoso di manodopera sovietica dal nord della Siberia, ha condannato questa regione a decenni di oblio. Fino al 2001 impenetrabile per un turista, la regione di Kaliningrad era considerata zona off-limits per gli stessi sovietici.
A pochi chilometri dalla città, in una foresta che profuma di muschio e legno, negli stretti spazi lasciati liberi dalla fitta vegetazione esistono ancora, seppur abbandonate e invase da cespugli, eleganti case in legno e pietra, mulini immobilizzati dalla cacciata della popolazione autoctona e incelofanati da putride reti militari mimetiche sistemate dalla contraerea tedesca. Il paesaggio è irreale e a tratti mette in dubbio l’affidabilità del nostro strumento ottico. Abbracciate dai rami della foresta e in fase di decomposizione, decine di chiese saccheggiate e depredate resistono all’avanzata del tempo; testimonianza inquietante di un intenso passato agricolo e sociale.
Poco prima di lasciare Kaliningrad – era quasi arrivato l’inverno e la mia presenza in quel posto era diventata un fatto di cronaca al punto che venivo intervistato da radio e televisioni locali – si avvicina una anziana e minuta signora. In perfetto tedesco chiede di potermi parlare. Nell’incredibile racconto di quella donna avrei ritrovato esattamente quello che andavo cercando. Ma questa è un’altra storia, che per intensità e portata storica merita separata narrazione.