La vita in un treno
Ieri ero in treno. Tornavo a Roma. Andavo via da un posto fantastico, di quelli che non ti va di abbandonare e quindi vivi il viaggio come se fosse un flashback nel tuo film personale, un momento di attesa prima di poter continuare la trama che ti piace di più.
Il viaggio in treno è sempre stata la mia passione. Più degli autobus. O corriere. O come preferisci chiamarle tu, lettore, in base alla zona di Italia dove ti trovi. Ho preso molti autobus nella mia vita. Quelli grossi, a due piani, con le poltrone comode. Sono abituata ai viaggi lunghi su quattroruote. Tanto abituata che, da quando ho tre anni, nel momento in cui la chiave gira e il motorino di avviamento parte, io sono già in fase rem.
Non mi piacciono gli autobus, perché dormo. E dormendo non posso guardarmi intorno.
In treno no. Con il treno posso procurarmi tutti i flashback che voglio, composti di storie non mie, in attesa che la mia riparta.
Mi siedo nel mio posto preferito, quello con il tavolino in mezzo. Mi siedo lì e davanti ho una cinese che legge qualcosa in cinese dal suo iPhone (cinese?), strizzato in una custodia di plastica rosa con delle grosse orecchie da coniglio. Che mi chiedo: ma non ti si impiglia nelle chiavi? O negli auricolari? O in qualunque altra cosa filamentosa tu possa avere nella tua borsa da donna? Non posso chiederlo a lei, non credo parli italiano e io ho troppo bisogno di pensare per poter avviare il programma “inglese” del mio cervello. Spazio su disco esaurito, sorry.
Vicino a lei c’è un ragazzo con gli occhiali, che dorme appoggiato al finestrino con la bocca aperta. È sempre molto buffa la gente che dorme con la bocca aperta. L’abbiamo fatto tutti e tutti sappiamo come va, a un certo punto: ti svegli di colpo perché ti accorgi che stai dormendo con la bocca aperta in un posto pieno di gente, che potrebbe dirti quante carie hai a questo punto, e ti senti un po’ in soggezione, un po’ come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Come se chi ti guarda non avesse mai dormito, almeno una volta, con la bocca aperta in un luogo pubblico.
Ma la mia storia non parla di questo. La mia storia è un salto nella sfera vitale di due donne sedute al tavolino a fianco. Parlano, parlottano, ridono e a un certo punto, piangono anche. Non so bene perché, ho capito solo che il tema è il lutto. Poi si riprendono e ricominciano a ridere. Hanno età molto differenti, una non arriverà a trent’anni, l’altra ne ha almeno quarantacinque. Sembra si conoscano da sempre, potresti pensare che sono cugine o si sono incontrate a qualche corso, che so, di fotografia.
Si confidano cose profonde, problemi familiari, figli che partono, mariti che partono e ritornano, sorelle strambe e con tendenze depressive, mamme apprensive, nonne sorde, diete e viaggi. Non proprio in quest’ordine, ma quasi.
Poi a un certo punto stanno in silenzio. E la signora più grande anni fa: “Guarda, io davvero non so come dirtelo, che mi sembra di conoscerti da sempre e grazie al cielo che ho preso questo treno”. E la ragazza risponde: “è proprio vero, anzi, scambiamoci i numeri così ti passo a trovare in agenzia appena posso”.
Scambiamoci i numeri. A volte, guardandoti intorno, dentro a un treno, pensi di infilarti nella normalità della vita di certe persone. E alla fine scopri che in realtà no, in realtà era un momento straordinario. Ti senti un po’ una ladra, all’inizio. Poi, invece, attingi a piene mani in quella sensazione che probabilmente provano loro, ora. Che la vita è magica, questo è. Certe cose che succedono, non si possono definire altrimenti.
Scendo prima di loro.
Non so se il numero se lo sono scambiato per davvero. O se, dopo esserselo scambiato ed essere tornate ai propri momenti ordinari, si chiameranno per prendere un caffè, riuscendo a ricordare la bolla di magia dove si sono trovate. Di certo, un giorno, potranno dire: “Ah, i treni, non sai, una volta ci ho conosciuto una persona fantastica e non so neanche come è successo”.
Io sì. C’ero.