Cari nonni
All’ultima fila di ombrelloni, vicino al tavolino da ping pong, ci sono le altalene. Mio nonno mi ci porta sempre. Mi solleva, mi aggiusta sulla seduta di legno corroso di mare. Io afferro le catene, strette strette, come mi dice sempre lui. “Non lasciarle mai, per nessun motivo” – si raccomanda. Ha il cappello in testa, le Merit infilate nel costume.
“Sei pronta?” – mi chiede.
“Sì, nonno. Fammi volare!”.
Lui si porta dietro le mie spalle strette di bambina, cotte di sole. Prende le catene tra le mani. Cigolano. Sento che mi porta indietro, per darmi la rincorsa. Poi mi lascia andare. E io volo. Dapprima piano, poi sempre più forte. Fletto le ginocchia, come mi ha insegnato il nonno, così riesco a tagliare l’aria ed andare sempre più alto. Arrivare lontano mi piace, quando l’altalena fa sempre più rumore e vedo gli altri bambini in fila ad aspettare il loro turno. Sono più piccoli di me. A loro è vietato volare così alto. Io invece riesco a rasentare il cartellone pubblicitario della Coca Cola, in cima all’altalena. Piego le ginocchia sempre meno, per rallentare la velocità e pian piano, fermarmi. La sabbia brucia, come l’acqua di mare negli occhi. E allora, mano nella mano con il nonno, salto da un ombra all’altra, salto file di ombrelloni, fino ad arrivare al mio. In prima fila.
Zia Tina fa l’uncinetto. Mia nonna si unge, che il sole così attacca meglio. Io sto sulla sdraio, seduta.
Le bibite si bevono con la cannuccia, nelle bottiglie di vetro che ci soffi dentro e gonfiano come l’acqua della pasta quando bolle.
La mia estate profuma. Quando dalla città, prepariamo l’auto per andare al mare, io riesco già a sentirne l’odore. Sa di legna appoggiata sulla battigia, di coltellacci a riva, di telline da tirare su con la rastrelliera. E sa di more, quelle da raccogliere sulle Muretta, nei giorni che non si va sulla spiaggia. Io e Nicola ci arrampichiamo per prenderle, riempiamo i ciottoli di latta, le laviamo con l’acqua ghiaccia di Camaiore. E le mangiamo, seduti in una poltrona in due, davanti alla tv. Dalla zia Jone, al mare, si beve l’acqua dal ramaiolo. E’ ammaccato dal tempo, appoggiato al muro, sul lavabo di marmo. Io voglio sempre bere per prima che non mi giovo degli altri. E allora corro veloce, faccio scendere presto l’acqua, giù, a fontana. Fin quando, fredda da far rabbrividire lo stomaco, merita di essere bevuta. Mia mamma, quando mi vede fare così urla. Dice che un giorno o l’altro mi verrà una congestione. A me non interessa. che può fare un po’ di acqua tirata giù veloce? Niente, in fondo io posso fare tutto.
Posso correre, dalla chiesa fino all’arco del Comune. Segnare quadrati a terra, sul cemento, con i sassi, e giocare a zoppino. Arrivare fino alla casa delle due sorelle pazze, che la mamma mi ha detto di non avvicinarmi neppure se mi salutano. Fare i primi tre scalini esterni che conducono al portone e poi, con Nicola, scappare a gambe levate. Con il cuore in gola, che batte. Batte e ancora batte. A Camaiore sembra che ci sia racchiuso il mondo.
C’è il profumo della vita, il sole che alle due del pomeriggio ti toglie le forze e ti fa arrancare. C’è Macò, il down rinchiuso che urla dalla finestra di camera sua e lo senti in tutto il paese. C’è ombra e luce.
L’ombra di Via Vittorio Emanuele, là dove c’è la chiesa; espongono i morti e ho paura solo a passarci. Là dove c’è la Misericordia, che anche quando ha il bandone ammezzato, ci si vedono le bare. Allora chiudo gli occhi e chiedo alla mamma. “Lo abbiamo sorpassato? Posso aprirli?”. Le Muretta invece sono il sole, il cielo che lo guardi e ti viene di respirarlo tutto quanto. Sono le Apuane, che in certi giorni ti sembra di poterle toccare. Sono la mia famiglia, in posa fuori casa, che si stringe per fare la foto di gruppo con la polaroid.
Sono la mia famiglia, in posa, fuori casa che si stringe per fare la foto di gruppo con la polaroid.
Sono i miei ricordi. Oggi così vicini da desiderare di poterli toccare di nuovo.