L’amore non è una cosa semplice

Mia mamma l’ho odiata, se l’odio è un sentimento che esiste. Non lo so per certo. Quel che invece so è che non avrei mai voluto essere come lei. Lucia spaccava il mondo in due con lo sguardo, con gli occhi neri di carbone che si accendevano e diventavano lava, cento, mille volte durante il giorno.

Era la donna più energica, attiva, geniale e intraprendente che abbia mai conosciuto, con una modernità innata che si portava addosso. 

Non sapeva essere mamma e neppure amica. Lei era solo Lucia. Accadeva che mi perdevo a guardarla, perso in una bellezza così importante che attraeva e respingeva nello stesso momento. L’ho odiata, dicevo. L’ho fatto perchè non si può passare una vita a sprecare talento. Lei ne aveva tanto. E non l’ha mai sfruttato, mai messo a segno. Ricordo con limpidezza l’adrenalina potente che si portava addosso, le idee belle, le mani che tutto riuscivano a fare, con un lapis in mano. Scriveva poesie che facevano piangere, Lucia. E facevano anche ridere. 

Lei riusciva a portarti nel baratro e poi un secondo dopo farti toccare il cielo con un dito. Disegnava da sola i suoi vestiti, le scarpe, i sandali. Tirava due segni sulla carta e tutto prendeva vita. Avrebbe potuto fare tanto del suo immenso talento, della semplicità con riusciva nella cose. In realtà non è riuscita mai a concretizzare, non portava a termine niente. Amava troppo sognare, mia madre. Per questo l’ho odiata con tutto me stesso. Sognava e non si amava abbastanza, lasciava piuttosto che la sua vita parallela prendesse il sopravvento su quella vera. Quante volte mi prendeva sulle gambe, da piccolo e mi diceva: “Ranieri guarda i disegni della mamma, ti piacciono?”.

Rispondevo di sì con il capo e guardavo quel colore, un segno di pennello che fuoriusciva da una gonna a ruota. Un ventaglio stretto, alla vita, che teneva fermo un corpetto a tinta unita, delicato.

Mi piaceva vederla creare. In quei momenti sorrideva e le sue labbra diventavano – non so come – rosse come ciliegie.

Lei mi invitava a sognare troppo spesso, a crearmi aspettative che non avrebbero mai avuto seguito. I giocattoli non mi sono mai mancati eppure, nella mente di un bambino come ero io, si innescavano sogni che non avrei potuto mai realizzare.

“Voglio volare, le dissi un giorno”. Un altro invece asserii di voler diventare comandante della più grande nave al mondo e varcare le acque degli oceani vestito di bianco.

La domenica seguente prese l’auto e da Roma arrivammo a Livorno. Rimanemmo per ore a vedere gli uomini della Marina attraverso una cancellata elegante, di un verde intenso. Al di là di quel grande edificio – popolato da uomini vestiti di un bianco abbagliante che nascondevano un centimetro di capelli sotto un cappello con un stretta visiera – c’era il mare.

Ecco, tra i miei sogni e il punto di arrivo per raggiungerli c’era il mare. Ed era tanto, così tanto da non vederne la fine.

Io facevo tutti i miei calcoli per capire se quel sogno l’avrei mai raggiunto. Moltiplicavo, sottraevo, aggiungevo, dividevo, studiavo percentuali, come mi avevano insegnato a scuola. Lei invece mi raccontava di possibili scenari dove io e lei saremmo stati felici insieme. Per papà, nei nostri sogni, non c’era posto.

Smisi di credere ai sogni il giorno in cui capii che Babbo Natale non esiste, che quando si muore non si torna più e che l’amore non è una cosa semplice. La prima a cinque anni, la seconda a sei, la terza quando ero più grandicello. Innamorarsi poteva essere la sensazione più paradisiaca e sensazionale, avvincente e incredibile ma anche la più assurdamente crudele. Amando ci si fa del male. Lo si fa agli altri. Vedevo Lucia piangere e poi ridere. Poi piangere di nuovo. Vivevamo i nostri giorni galleggiando, aspettando domani. Il giro di vite, lo chiamava mia madre. In realtà non ha mai saputo scegliere. Io pur di crescere diverso da lei, ho scelto i numeri. Con i numeri non puoi sbagliare, tutto deve tornare. Non ci sono opinioni, punti di vista, sfaccettature. Sono diventato un mago in questo. Ho avuto successo. Talmente tanto da non aver modo di pensare. Era l’unica cosa che ho sempre desiderato. Così ho passato ore sui treni, ho tagliato il cielo con gli aerei per raggiungere veloce Milano, ho dormito nelle lenzuola degli hotel che non lasciano ricordi. Ho una casa dove tornavo il fine settimana e che non ho avuto ancora modo di arredare. L’ho comprata senza bisogno del mutuo. In quei giorni, in quegli anni ad alta velocità spesso Lucia mi chiamava. Il suo nome si illuminava sul cellulare. Non rispondevo quasi mai. L’avrei richiamata poi. Non era come i miei clienti, il denaro, la Borsa. I numeri ti catalizzano l’esistenza. Tutto corre e scappa se non sei bravo ad acchiapparlo per tempo. Non ti puoi permettere di perdere attenzione, di lasciarti distrarre. Lucia non sarebbe scappata. Sapevo che – appena avrei composto il suo numero – avrebbe risposto al primo squillo.

Smisi di pensare.

Chi poco pensa è più felice. Io ero un convinto sostenitore di questa teoria

Chi poco pensa è più felice. Io ero un convinto sostenitore di questa teoria.Eppure Ischia sembrava tirar fuori dalla mia mente più di quanto pensassi di ricordare. Era come se l’Epomeo si fosse all’improvviso risvegliato e volesse cacciar via tutto quella che teneva nella pancia da secoli. Avrebbe potuto gettare zampilli su quella terra dannatamente verde e perfetta. Distolsi lo sguardo dalle colline mentre aspettavo che Dario finisse il turno di notte alla reception e mi accompagnasse alla cantina sopra il porto.

Vasco aveva placato la sua fame con tre polpette e due brioche. Fu in quel momento che capii di essere rimasto solo. Quel cane era l’unico essere su quella terra al quale avrei dovuto badare. Non avevo un padre, nè una madre. Non una donna, una puttana, uno straccio di amico. Non mi fidavo della gente. La gente vuole solo fotterti, per questo ti sorride e ti chiede come stai anche quando non gliene frega niente. Questo mi avevano insegnato anni di lavoro in borsa. In quell’immensa solitudine mi sentii perso.

Arrivò Dario. Mi tirò una pacca sulla spalla come se ci conoscessimo da secoli e mi invitò a seguirlo nel retro di Villa Maria. Era lì che custodiva il suo tesoro, una Vespa del 1961, color ruggine.

Lei è la quarta donna della mia vita– confessò orgoglioso, lisciando la sella.

Non ne dubito, replicai girandoci intorno.

Aveva cromature perfette. Luccicavano sotto il sole di una primavera che aveva voglia di farsi sentire. Vasco si era steso a terra godendo del tepore della pietra.

Salga su, mi disse.

Non si preoccupi. E indicò poi un’Ape parcheggiata appena fuori dall’hotel. Le avevo detto che sarei andato al “Giardino mediterraneo” a prendere del vino, no? Viene con noi anche Pasquale, Vasco può salire con lui.

Annuii e ringraziai l’uomo alla guida di quel pittoresco motocarro con un cenno della mano.

Mi avvicinai per guardarla meglio. Avrei tirato quasi fuori la mia reflex dalla sacca per immortalare quell’improbabile mezzo di trasporto a metà tra un furgoncino e un taxi. Dentro era tappezzata con un rivestimento di cotone con una sgargiante fantasia fiorita. Fuori la carrozzeria era tinta di un verde-azzurro molto anni ottanta. Ruote piccolissime, forse più minute di quelle degli scooter che scorrazzavano tra le curve morbide dell’isola. Mi chiesi se avrebbe retto una salita. Provai allora stimare, con un breve calcolo, la velocità massima di quel buffo aggeggio con una pendenza del trenta per cento, a mezzo carico. Ci rimuginai su. Avrebbe consumato litri e litri di benzina, inquinato come poche cose al mondo possono fare. Ed avrebbe ciottolato come la peggior carcassa di automobile mai vista. Smisi di fare previsioni e statistiche quando Dario mi chiese di salire in sella alla sua “Pesetas”.

Vasco mi guardava divertito mentre Pasquale dava gas e faceva girare l’ape su se stessa, pronta a  dirigersi verso il porto e poi inerpicarsi verso quella che sarebbe diventata la nostra casa. Ma un cane può essere divertito? L’isola mi faceva dire e pensare cose assurde.

Non so con quale fiato la Vespa di Dario ci portò fino al Giardino Mediterraneo, attraverso strade strette e mura grasse dove cresceva una vegetazione di un verde intenso. I

Il sole filtrava e sbatteva tra sassi rotondi che si erano fatti muro e seguivano le diritture e i tornanti. Mi convinsi che una luce così sarebbe piaciuta a Monet  e riflettei poi su su quel riverbero dolce che accarezzava il nostro cammino. Inspirai più volte l’aria fresca mentre facevo fatica a seguire le parole di Dario che mi spiegava – in un italiano mischiato al dialetto – la storia del selciato che stavamo percorrendo. Credevo di aver corso lungo migliaia di chilometri quando arrivammo in cima alla collina. E invece eravamo semplicemente saliti su una sorta di Olimpo da dove si dominava tutto il porto. Mi chiesi come Lucia avesse potuto trovare quel posto.

Rimasi affascinato. Non capita spesso che mi succeda. Una sensazione di meraviglia così piena l’ho provata una sola volta in quarant’anni.   A Firenze, in un pomeriggio di domenica. Ero con mio padre. Mi portò dentro la Cappella dei Principi di San Lorenzo. Mi sentii piccolo piccolo in quell’universo di marmo.

Quel giorno, quel mattino fresco e pungente, mi ritornò addosso la stessa sensazione guardando le colline che calavano verso il porto che- in quel momento – pareva immenso.  Mi avvolse un brivido inaspettato. Lungo. Come una scarica elettrica che ti attraversa il corpo.

Dario stava parcheggiando la vespa e un signore mi venne incontro. Io non riuscivo a smettere di guardare quel panorama immenso . In un solo  sguardo non riuscivi a prenderlo tutto. Dovevi girare il capo da sinistra a destra, come si faceva un tempo con i cannocchiali piazzati nei punti panoramici delle città.

I traghetti alzavano fumo al cielo, Napoli sembrava vitale, agitata e caotica anche se era così lontana. D’intorno c’era tanto verde, di tonalità diverse. Più intenso dove i pini erano fitti, più brillante e luminoso nei punti dove crescevano piante fiorite. Le case erano punti di bianco, di rosa, di giallo. E poi il Castello Aragonese, San Michele, Campagnano.

Verde, mare, cielo, roccia. Vigneti. Avevo il mondo negli occhi. Quello che avrebbe potuto riportarti in un attimo sulla terraferma, o quello  che avrebbe portato lontano, su un’altra isola. Quelle più vicine, Vivara, Procida. O quelle che erano solo una macchia di colore appoggiata sul mare, come Capri.

L’uomo arrivò vicino a me. È un belvedere, disse.

Lo è, risposi.

Lui era Francesco, gestiva quella cantina da anni. Vuoi vedere dove vivrai? Mi chiese.

E mi condusse verso una piccola salita che conduceva alle vigne. Per raggiungere le quattro mura che mi avrebbero ospitato nei miei mesi ad Ischia prendemmo una monorotaia che ci trainò fino in cima alla collina. Era piantata tra filari di viti. Saliva rumorosa e lenta.  Io me ne stavo comodamente seduto con le gambe all’aria che dondolavano nel vuoto.  Il corpo lo sentivo  pesantissimo, sembrava che volesse tirarmi giù e farmi rotolare fino alla Riva Destra.

Rimasi impietrito, di fianco a Francesco. Il panorama d’intorno scomparve in un attimo.

Guardai meglio quell’uomo. La pelle scura, gli occhi infossati e intensi. Mi parve un buon uomo. quel che mi faceva senso era che parlasse di mia madre con familiarità. Chi sei tu, Francesco? E perché Lucia non mi ha mai detto di te? Perchè è stata su quest’isola? E io dov’ero quando lei era qui? Provai a ricostruire. A pensare. A calcolare.

Nessuna buona risposta, nessuna illuminazione.

Dario, accanto a me, scriveva come una scheggia sull’iphone e sicuramente non aveva sentito nemmeno una sillaba di tutta quella conversazione.

Francesco indicò, con l’indice tirato verso il basso, le viti che scendevano guardando l’immensa distesa salata sopra la quale galleggiavamo noi, gli alberi, l’Epomeo, i pensieri che mi rimbalzavano come palline da ping pong da un lato all’altro del cranio.

Vedi tutto questo? mi disse poi. Adesso tocca a te.

Vasco aveva già scelto un angolo dove dormire. Io avrei pagato qualsiasi cifra per addormentarmi con lui. E non svegliarmi mai più.

Ps. Il Giardino Mediterraneo esiste davvero. E’ un ristorante sopra Ischia Porto. Guardate la gallery: qui

Se volete vedere la Pesetas di Dario passate da Villa Maria, la troverete parcheggiata sul marciapiedi dell’Hotel. E’ un vero pezzo da collezione.

Se invece volete conoscere la parte più inedita dell’isola rigorosamente a piedi vi consiglio gli itinerari (da provare!) di Trekking Ischia