Cercatori di funghi
Si alzavano molto prima dell’alba, i cercatori di funghi. Indossavano lunghi stivali di gomma e giubbini incerati. Cesto di vimini, coltello e tanta buona volontà. Entravano nell’auto fredda, con il volante indispettito che ghiacciava le dita. Il motore brontolava come chi non ha piacere di essere svegliato. Ingranata la prima, l’auto partiva dubbiosa.
Le nubi sembravano un manto scuro, come gli scialli a lutto che si usano ancora in certi paesini del centro. Tutto era silenzio. La luce svogliata dei lampioni illuminava le strade vuote. Tra qualche ora sarebbero state invase dalle auto, dai beeeeep e dalle imprecazioni di chi va al lavoro in ritardo.
I cercatori di funghi no, loro partivano per tempo, consapevoli che sarebbero dovuti arrivare per primi, o non avrebbero trovato niente, se non le tracce di chi li aveva preceduti. La macchina seguiva le curve d’asfalto che, come una cicatrice datata, tagliava le campagne ancora brulle, dove esili fili verdi cercavano spauriti un perché al passaggio del fuoco. Ma un perché non c’era. Il terreno puzzava ancora dei misfatti dell’estate prima. Era da sempre così, e sempre sarebbe stato così.
I cercatori di funghi guardavano il sole sorgere pallido dietro gli antichi vulcani dormienti. Cime piatte, come fossero uscite da un film di cow boy. Uno dei due aprì il finestrino e lasciò entrare nell’abitacolo l’aria graffiante d’aperta campagna. Le colline cedevano il passo ai sughereti che diventavano sempre più fitti man mano che l’auto s’inerpicava sui tornanti. Era una zona di ovuli e di mazze tamburo quella. Li conoscevano bene loro. Scesero dalla macchina, mentre una luce velata si faceva largo tra i rami fitti. Querce e sugheri selvatici si intrecciavano come in una danza celtica. La notte prima aveva piovuto, la terra era umida. La macchia mediterranea, che d’estate sorride ai turisti dandogli il benvenuto e d’autunno diventa prepotente e arcigna, bagnava a ogni passo.
I cercatori di funghi sembravano segugi. Annusavano il terreno e si orientavano col sole. Il bosco era avvolto da un velo di nuvole basse che nascondevano i piedi. Vedere i funghi sarebbe stato complicato. Le foglie secche crepitavano sotto i loro passi. Qualche uccello cantava il suo buongiorno, o forse una protesta per l’intrusione nel suo territorio. L’importante era non incontrare cinghiali, quelli sono grossi e s’incazzano se hanno vicini i piccoli. Il profumo del bosco penetrava sempre più in profondità, da prima nelle narici, poi ristagnava nelle fosse sinoidali e colava giù, ad annodarsi ai bronchi.
I cercatori di funghi siamo io e mio padre. Ombre di un passato deformato che non posso collocare nel tempo reale. Siamo un padre e una figlia che appianavano le divergenze tra chilometri di natura, su e giù per colline, fino a perdere completamente il fiato e piegarsi sulle ginocchia in debito d’ossigeno, con la faccia paonazza e i capelli appiccicati al collo dal sudore. Siamo noi quando ancora eravamo. Siamo cercatori di funghi che portavano a casa sempre il cesto pieno di funghi e l’auto piena di sogni. Siamo quello che il tempo ha cambiato, invecchiato, trasformato. Siamo profumo di sughero e terra bagnata tra i boschi, siamo aspettative deluse e speranze riposte. Ora sento ancora quel profumo intenso e la voglia di salire in macchina all’alba è struggente, ma non sarebbe lo stesso.