In una sola parola: Cohen
« Vorrei dire tutto ciò che c’è da dire in una sola parola. Odio quanto possa succedere tra l’inizio e la fine di una frase »
Leonard Cohen
Per prima cosa ho pensato è un’età da padre. Immaginare di avere come padre Leonard Cohen. No, non è affatto facile immaginarselo. Già solo per il fatto di non essere canadesi. Di non aver mai passeggiato per enormi boschi colorati di foglie, tra brume di laghi al mattino e luci sporadiche in mezzo agli alberi la sera. Non ci si può nemmeno aggiungere al coro di celebrazioni per gli 80 anni di Leonard in modo del tutto spensierato. Su un personaggio come Cohen si possono spendere fiumi di parole e non si finisce di disegnarlo, oppure, come disse lui, si vorrebbe dire tutto con una sintesi estrema, e ogni inizio e fine di frase allontanano da questo obiettivo. Ne farò un ritratto alla “Ziggy”, personale e un po’ misto al fantastico. Fantastico questa volta nel senso di fantasia, ispirazione. La voce della mia emozione personale per quell’eredità di stupore che Leonard Cohen mi ha lasciato da quando presi in mano un vinile e sopra c’era scritto il suo nome.
A celebrarlo ci hanno già pensato i più autorevoli, negli anni e anche in occasione di questo genetliaco.
Il New York Times, che non ha dimenticato qualche giorno fa il suo compleanno ed è uscito con una nuova intervista, dedicò a Cohen un articolo già quando lui aveva 33 anni. A quei tempi il quotidiano newyorkese si sentì in dovere di dar lui una definizione, poiché cominciava ad essere molto popolare. Lo “bollarono” come il “poeta-chansonnier che piace agli innamorati”, e non so se a lui poi piacque la definizione. Poterglielo chiedere…
Della storia di Leonard mi è sempre piaciuto il fatto che da giovane fosse molto chiuso ed emotivo, e che in studio, quando andava a registrare un disco, si vergognava, proprio come me quando parlavo alle assemblee della scuola!
Eppure poi ha calcato i palcoscenici del mondo, con folle di spettatori davanti; per esempio nel ’70 era all’Isola di Wight, sì, proprio per QUEL concerto, quello che aveva più spettatori di Woodstock, e che costò al mondo della musica la soppressione dello stesso festival a causa dei comportamenti anticonformisti e irriverenti dei giovani accorsi da tutto il mondo. Lui provò persino ad ammansirlo, quel pubblico, con la sua voce graffiata e rassicurante.
Ma Leonard fu poeta, scrittore, prima che cantante. E spesso si parte con la poesia perché con lei sei chiuso in una stanza e non ti vede nessuno, e puoi dire a lei i tuoi turbamenti, fantasmi. Non corri il rischio che qualcuno venga a stanarti, almeno finché il mondo non si accorge di te.
Di Leonard in verità, il mondo si accorse presto. Che fosse pronto o pure no per consegnarsi a lettori, ammiratori, devoti, e innamorati che facevano proprie le parole che scriveva.
Leonard Cohen ha accompagnato la mia vita e gli devo tanto. Ma prima di mettermi a citare le canzoni, le sonorità, le raffinate atmosfere della sua musica, voglio parlare di un episodio della sua vita. Qualche tempo fa si rimise in giro con faticosi tour – già in su con gli anni – per contrastare il declino economico: la sua manager ( e amante ) dopo una gestione poco oculata dei suoi beni, se n’era andata distraendo una cospicua somma a proprio favore. Qualcuno vi ha voluto vedere un motivo commerciale, materialista, poco edificante, per rimettersi a comparire sulle scene. E dato che Cohen, come si deduce dal nome, ha origini ebraiche, qualcuno ha subito detto: “eh beh!… eh già!”
Io ho provato molta ammirazione per l’anziano Cohen che si rimette sulle gambe e non solo con un patrimonio già notevole di vecchi successi, bensì con nuovi album originali e coerenti, sale su palcoscenici quali il Madison Square Garden a New York, o la nostra Arena di Verona ( nel 2012, quindi a 78 anni ) dandosi in pasto ai grandi pubblici di oggi, abituati agli show multimediali. Un uomo che crede di aver raschiato fuori tutto l’istrionismo che poteva trovare e ora può tornare ad essere, senza bisogno di apparire (nel frattempo tra l’altro è stato ordinato monaco buddista), calca invece in testa il suo storico borsalino grigio, prende in mano la chitarra e torna ad essere il vecchio cantastorie fino a 80 anni. Ci vuole spessore, mestiere; è un gesto di grande umiltà. Nel momento del bisogno, si riconoscono le nostre vere vocazioni forse, e se ne fa virtù.
E ora voglio dire della musica e delle parole di Leonard Cohen, delle ballate che me lo hanno reso caro e che, indubbiamente, hanno influenzato i miei cambiamenti, la mia creatività. Di come lui sia entrato nella sfera delle mie emozioni e con quali pezzi in particolare. Credo che non ci sia un modo più bello per fare un omaggio ad un artista, che questo: confessare che alcuni suoi pezzi sono tutt’ora la colonna sonora della tua vita.
Il vinile che trovai a casa di un mio caro amico nel 1978, era il primo album di Cohen, si chiamava semplicemente Songs of Leonard Cohen. Era in bianco e nero e di colorato c’era solo il nome dell’autore. La sua foto, la foto di un uomo qualunque, vestito di scuro, con l’espressione seria, era in grande contrasto con le foto dei vinili sparsi intorno, dalle copertine colorate e appariscenti tipiche della Beat Generation. Mi incuriosì e quando lo ascoltai, rimasi impigliata in Suzanne, la ballata tradotta in italiano da Fabrizio de Andrè, che fece bellissime versioni di altre due canzoni di Leonard, diventate Giovanna d’Arco e Nancy.
La frase di Suzanne che mi ha letteralmente stregato, e che ha fatto sì che mi avvicinassi a quel testo con grande sete di comprensione era questa: “For you’ve touched her perfect body with your mind.”.
A quei tempi avevo sedici anni, ma nella mia giovinezza irrequieta e fortemente tesa alla ricerca di significati profondi per le esperienze della vita, identificai in quel breve verso di Cohen uno dei temi centrali per la mia sensibilità. L’incontro corporeo con Suzanne, passa per una comprensione “spirituale”, per un incontro di anime. Infatti la ragazza Suzanne, la strana, la matta, che ti porta sulla sua strada, ha lo stesso effetto di un incontro con Gesù:
And you know that she will trust you,
For you’ve touched her perfect body with your mind.
And you want to travel with her,
And you want to travel blind,
And you know that she will trust you,
For you’ve touched her perfect body with your mind.
And Jesus was a sailor when he walked upon the water,
And he spent a long time watching from his lonely wooden tower,
And when he knew for certain only drowning men could see him,
He said “all men will be sailors then until the sea shall free them,”
But he himself was broken, long before the sky would open
Forsaken, almost human, he sank beneath your wisdom like a stone.
And you want to travel with him,
And you want to travel blind,
And you think maybe you’ll trust him,
For he’s touched your perfect body with his mind.
A parte forse Chelsea Hotel#2, la canzone dedicata a un incontro con Janis Joplin al famoso hotel di Manhattan – il luogo dove rincorrere i fantasmi musicali che avevano popolato la mia giovinezza, oggetto da parte mia di un vero e proprio pellegrinaggio appena sbarcata negli States – le altre ballate di Cohen che mi hanno riguardato da vicino, divenendo appunto colonne sonore della mia vita sono, come Suzanne, fortemente rivolte a una ricerca tra le pieghe dello spirito umano. Il nucleo della diversità dei pezzi di Leonard rispetto alle ballad che furoreggiavano a quei tempi, quelle di Bob Dylan e Joan Baez per intenderci, fortemente rivolte al sociale, è stato forse proprio questo: lui è andato a porre per primo lo sguardo dentro la propria anima, capendo che il cambiamento della società non può procedere senza che ogni individuo si ponga il problema di un cambiamento interiore.
Famous Blue Raincoat, First we take Manhattan, Who by fire, Waiting for the miracle, sono molti i titoli di Leonard che fanno parte delle mie playlists.
Ma la mia raccolta preferita fu, e resta, quella meno apprezzata inizialmente sia dai critici che dagli stessi fan del cantautore canadese. Proprio quel Various Positions, album del 1984, che gli valse un sacco di critiche, e che credo di poter dire, fu un punto di arrivo per la sua ricerca esistenziale. Eppure quella raccolta conteneva Hallelujah, la preghiera blues che vanta un numero altissimo di cover e di esecuzioni da parte di nomi eccellenti in giro per il mondo – prima fra tutti quella di Bob Dylan himself – la ballata che gli avrebbe regalato qualche anno dopo l’attenzione di un audience meno elitaria.
Oh let me see your beauty when the witnesses are gone
Questa raccolta mi entrò nel cuore per sempre grazie al pezzo Dance me to End of Love, un pezzo struggente, dalle sonorità di una danza klezmer, che se pare una ballata dell’amore eterno, dell’amore profondo, è di fatto una canzone che parla dell’olocausto, del momento della morte e della paura che si avvicinano, ma che proprio nella dimostrazione dell’amore disinteressato, avulso dalla bellezza, dalla speranza, nell’accettazione del destino amaro, trovano elegia.
Anche di questo testo, alcune frasi si sono scolpite profondamente nella mia memoria, come mantra:
Dance me to your beauty with a burning violin
Dance me through the panic ‘till I’m gathered safely in
Lift me like an olive branch and be my homeward dove
Dance me to the end of love
Dance me to the end of love
Oh let me see your beauty when the witnesses are gone
Let me feel you moving like they do in Babylon
Show me slowly what I only know the limits of
Dance me to the end of love…
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=7pA5UhNaYw0]
Leonard Cohen è oggi un ottantenne che con la sua presenza pacifica ed elegante ancora affronta le scene, e ha il coraggio di scrivere nuovi capitoli della musica. Di questi giorni l’uscita del suo nuovo album Popular Problems, dal quale, grazie ai nuovi mezzi di diffusione mediale, ho potuto ascoltare in anteprima alla vendita commerciale alcuni brani. Più di tutti mi ha colpito SLOW, quasi un gospel, che no, non è la scoperta forzata della lentezza da parte di un anziano, bensì la presa di coscienza di una nuova e più ampia dimensione all’interno della quale vivere e creare, una dimensione che lui ha sottolineato riprendendo la frase detta già dalla sua guida spirituale: “Excuse me for not dying”.
Excuse me for not dying
I have to die a little
Between each murderous thought
And when I’m finished thinking
I have to die a lot
(Slow, Popular Problems)
Scusatemi per non essere morto, dice Leonard con la sua ironia che nemmeno la raggiunta illuminazione buddista sembra aver ucciso, e noi, non solo lo scusiamo, ma siamo ben felici che sia ancora capace di regalarci nuove creazioni musicali e stimolanti pensieri.