La porta blu
#IloveIschia è un romanzo web a puntate.Questa è la seconda puntata.Andate qui per leggere prima puntata.
Era sempre Vasco a ricordarmi quando era l’ora di andare. Lo fece pure quella sera che sbarcai sull’isola. Spinse più volte il muso sulla mia gamba rilassata, si strusciò contro i jeans che avevano inzuppato tutto il salmastro di quella notte umida, si buttò a gambe all’aria, per attirare la mia attenzione. Non abbaiò, mia madre era stata un’ottima addestratrice. L’assecondai. Mi alzai a malincuore da quella panchina sulla quale avevo trovato attimi di riposo e – non so bene perché – anche di serenità. Una sensazione di rilassamento totale che non provavo da anni.
Non riuscivo mai ad abbandonare il mio corpo alla liquidità di un momento in cui non pensare a niente. Avevo sempre il cervello sull’attenti, i muscoli tirati, gli occhi aperti anche mentre dormivo
Detti un ultimo sguardo al porto, prima di incamminarmi. Le case erano dei grandi e piccoli parallelepipedi, cubi come quelli delle costruzioni con cui giocavo da bambino. Senza tetto alcuno, senza tegole. I muri scrostati, giallognoli, bianchi. Erano arrampicate una all’altra, in un incastro perfetto. Si appoggiavano morbide sul tufo, su una natura amica, terra che era sabbia, scoglio e poi collina. Macchie di verde petrolio tenevano strette le case in un abbraccio di mamma.
Mi incamminai, abbandonando pian piano la Riva Destra. Quella sera non avevo voglia di andare alla cantina che mia madre aveva preso in fitto, non era ancora il momento. Ci avrei pensato il giorno seguente, al mattino presto, quando la luce avrebbe rischiarato tutto, anche i miei pensieri, quella decisione di partire non soppesata, il bisogno di lasciare tutto, di capire.
Il Grand Hotel Aragona scintillava, come se il mondo in quel momento ancora non stesse dormendo. A pochi passi c’erano due gabbiotti di fortuna con affissi poster pubblicitari sui giri turistici dell’isola in motonave. Mi piacque il nome, Capitan Morgan.
Nei giorni successivi decisi di investire così qualche spicciolo e salire su quella barca.
Dentro era buio. Provai a bussare, piano, come si fa quando si pensa di disturbare. Vidi una lunga figura che camminava nella penombra. Procedeva a passo svelto, verso di me. La cosa buffa era che riuscivo a sentire il rumore del mare e non quello delle scarpe di quel ragazzo che mi stava aprendo la porta.
“Posso aiutarla?” – mi chiese.
“Capisco che l’ora è tarda ma vorrei sapere se avete una camera a disposizione per questa notte”.
Lui mi guardò un attimo.
“Non credo di poterla aiutare, abbiamo esaurito tutte le camere. stiamo ospitando un raduno di arbitri”.
“Di arbitri? “.
“Già. Ma è manna che cola dal cielo sa. È difficile avere l’hotel pieno, fuori stagione”.
Annuii e mi scusai per aver disturbato.
“Vasco, andiamo va. Dormiremo in spiaggia, come facevo da giovane”. Lui postò il muso di lato, inclinandolo, come a pregare di trovare una soluzione alternativa.
Il ragazzo però si illuminò, come se improvvisamente si fosse fatto giorno. “Forse un posto per dormire potrei trovarglielo, mi propose”.
Lo ringraziai.
“È una camera di fortuna” – mi disse – “io la chiamo la stanza del marinaio ma almeno non passerà la notte all’addiaccio”.
“Dormirei anche su un letto di paglia adesso” – gli risposi con un pizzico di ironia.
“Bene, allora mi segua signor…”
“Ranieri, Ranieri Montesanto”.
“Piacere, signor Ranieri, io mi chiamo Dario”. Mi strinse la mano con decisione e mi accompagnò in questa piccola stanza. Lo osservai, come faccio sempre con le persone la prima volta che le vedo. Capelli corti, occhi nocciola che avrebbero potuto cambiare colore con la luce del sole. Mi chiesi come fosse possibile avere una pelle tanto chiara se si vive al mare. Lo trovai elegante, nei movimenti. Indossava una polo celeste chiaro e un paio di mocassini.
Aprì la porta della camera e si scusò perchè era piccola. Mi chiese poi se fossi ripartito l’indomani.
“No, sono venuto per rimanere“, – dissi. “Almeno per un po’. Non ho certezze. Ho solo un’indirizzo, Via nuova dei Conti, è lontano da qua?”.
“Lì ci sta la cantina storica.”
“Ecco, è il mio posto”.
“Se vuole domani l’accompagno, devo andare in collina a comprare del buon vino per l’albergo. Deve acquistare qualche bottiglia pure lei?”
“A dire il vero no. Quel posto sarà casa mia per un po'”.
Dario mi guardò leggermente stranito ma non aggiunse altro. Mi salutò e prima di congedarsi mi disse che quella notte era un omaggio dell’isola. Gli risposi che non avrei mai soggiornato senza pagare.
“Così sarà costretto a tornare”, – ribatté sorridendo. “Almeno per ricambiare il favore. Però mi avvisi per tempo, così le riserverò la nostra miglior camera”.
La porta si chiuse e io mi gettai di colpo sul letto di quella piccola stanza nella dépendance dell’hotel. Non era poi così male come me l’aveva descritta il ragazzo. Era piuttosto una piccola bomboniera, forse un po’ stretta ma accogliente. Vasco si sistemò sul terrazzino e non alzò la testa fino al giorno seguente. Io presi il biglietto del treno tra le mani, insieme a quello del traghetto ed a un piccolo foglio di quaderno a quadretti.
Sopra, con la penna biro, c’era appuntata una lista. La calligrafia era di mia madre. Erano le undici cose che lei avrebbe dovuto fare ad Ischia.
Quel desiderio mi strappò un sorriso. Mia madre, come me, non aveva mai ballato, nonostante fosse una donna estroversa. Non ce la vedevo nei panni della danzatrice. Proseguii con la lista. “Mangiare il panino con le mortazza del Boccia al Ponte e aspettare la Festa di Sant’Anna seduta su uno scoglio, noleggiare una mini moke e girare l’isola fino a quando non finisce la benzina, guardare il film “Cosa è successo tra tuo padre e mia madre”, con Jack Lemmon, star sveglia una notte intera, guardando Napoli, scoprire cosa c’è dietro la Porta Blu. Scrivere una lettera, a mio figlio”.
La lettera per me era l’undicesimo desiderio di quella strana lista. Non l’ha mai scritta o almeno io non l’ho mai trovata. Da quando è morta non sono più entrato nella sua casa.
C’è chi, appena uno muore, si libera di tutto. Vestiti, oggetti, ricordi. Si getta una vita in sacchi informi di plastica, destinata al macero. Sono solo vestiti, dicono. Le persone si portano nel cuore. Io non ce l’ho fatta. È ancora tutto là, a Roma, nel Vicolo Cellini. Non ho neppure serrato le finestre. Volevo che ci fosse ancora luce a casa sua.
C’è chi, appena uno muore, si libera di tutto. Vestiti, oggetti, ricordi. Si getta una vita in sacchi informi di plastica, destinata al macero. Sono solo vestiti, dicono.
Aprii il frigobar. Bevvi a canna una minerale ghiacciata. Pensai alla Porta Blu. L’indomani avrei chiesto a Dario dove si trovasse, non figurava tra le attrazioni della cartina turistica. Mi vennero in mente Hugh Grant e Notting Hill. Julia Roberts fu l’ultima persona alla quale pensai prima di addormentarmi.
(continua tra una settimana)
