Il sogno di una vita
La folla era tutta ammassata. Era appena arrivata la nazionale, con i giocatori che scendevano dal pullman fra gli urli e gli applausi, le spinte dei vigilanti. I recenti successi avevano reso i tifosi più esaltanti e esaltati: quando si vince, l’identificazione è più efficace e penetrante.
Renato Ferroni era proprio lì, guardava ammirato quei tizi. Quello che costava meno era vicino ai dieci milioni, senza contare al guadagno portato a casa ogni anno. Ma Renato non invidiava i soldi, anzi a quelli non ci aveva mai pensato. Provava un po’ di invidia per la gloria che questi esprimevano. E lui stesso ne era causa, visto che era lì ad applaudirli, ed era sempre lui con l’abbonamento allo stadio a foraggiare quei prezzi e quegli stipendi. Avrebbe volentieri fatto a meno di tutti quei milioni, solo per poter scendere lui da un pullman con tutte le televisioni davanti.
Una volta aveva anche tentato di andare a un reality show ma non l’avevano preso. Non glielo avevano detto, ma lui l’aveva capito di essere apparso insignificante, poco televisivo. Sua madre lo consolava sempre: “Ma cosa t’importa? Hai un lavoro, una brava ragazza. Metti su famiglia e vedrai che nella vita è meglio di tutto“. Lui annuiva, diceva: “Hai ragione“, e subito dopo scorreva i quotidiani per vedere se c’era qualcosa degno di essere seguito di persona. Una volta c’era un ministro, una capo di Stato estero, un cantante, un attore, un pilota di corse, chiunque avesse una fama pubblica.
Non andava mai dagli scrittori, convinto che “non fossero esilaranti“, dando a questo aggettivo chissà quale significato misterioso. Solo pochi di loro erano riconoscibili come divi, quindi poco da vedere. Renato soffriva anche di una curiosa sindrome che lo portava ad adottare abbigliamenti che in qualche modo fossero consoni al personaggio che andava a ammirare. Per un capo di Stato metteva la cravatta, per un cantante una mise simile a quella di quest’ultimo, per un attore qualcosa che ricordasse qualche suo personaggio. Ovviamente non sempre poteva soddisfare questa mania, ma quando poteva non ci rinunciava.
La mamma lo guardava con comprensione materna, era l’unico lato infantile del suo carattere. Per il resto era affettuoso con la famiglia, innamorato con la ragazza, scrupoloso sul lavoro, non tanti amici ma quei pochi buoni. Di tanto in tanto andava anche alla parrocchia per qualche lavoretto di volontariato, ma non era un gran frequentatore di funzioni religiose. Il parroco lo invitava spesso a farsi vedere con un po’ più di frequenza e lui, come faceva con la mamma, annuiva e poi non si faceva vedere.
Quel sabato, dopo i calciatori c’era un doppio lavoro. In un lussuoso albergo sarebbe scesa la bellissima attrice della Metro, in odore di Oscar e prima donna dell’ultimo film di successo nel quale interpretava il ruolo di una seducente ma crudele spia. Renato si preparò anche per lei, e arrivò in anticipo per appostarsi all’ingresso dell’hotel. Finalmente la limousine si fermò davanti al portone, Renato si avvicinò, non c’era tanta gente. Quando lei scese, luminosa, lui allungò il braccio come nella scena del film e si inginocchiò. Un attimo dopo lei era accartocciata su se stessa e rossa sull’abito bianco. Renato, tra le urla di tutti, si mise a sedere e aspettò che la fama lo accogliesse nel suo empireo.