24 fps, la mia Mostra del Cinema di Venezia
La luce diventa opaca, pallida e poi decadente, sulle ultime scintille di sole che abbandonano il Lido di Venezia, sfregando come pietre focaie sul cielo sporco di strie bianche di nubi.
Il primo giorno è già giunto al termine, senza che nemmeno ci accorgessimo del suo passaggio, e devo dire che la mostra internazionale del Cinema di Venezia è diversa da come me l’aspettavo.
Innanzitutto non vedo traccia di glamour, pavoneggiamenti da ricchi e viziati, transenne e blindati per proteggere i vips che uno si aspetterebbe ad una delle più importanti feste del cinema del mondo. Devo dare ragione a chi mi ha parlato del festival in precedenza. Venezia si distingue dai suoi fratelli Cannes e Berlino per una completa ed esclusiva attenzione al prodotto filmico come punto d’incontro tra arte e business. Cannes e Berlino, molto più grossi ed esclusivi, puntano tutto sul mercato del cinema (l’occasione per produttori e distributori di mettere il naso nei nuovi lavori in arrivo), sui party delle stars che si protraggono fino a mattina inoltrata, e sullo sfoggio di abiti firmati e rimmel sul tappeto rosso. Non che Venezia sia del tutto estranea a queste mondanità. Il tappeto rosso c’è e lo si vede eccome, incastonato tra il palazzo del cinema e una chiesetta in stile romanico. Operatori dell’industria, divi, cast tecnici e artistici sfilano sulla passarella, abbagliati dai flash dei fotografi e rilasciando qualche autografo. Malgrado questa patina superficiale, i veri protagonisti del festival sono i film, e volendo uno ne ha per tutta la giornata. Le proiezioni sono continue da mattina a sera, e l’atmosfera magica del buio di una sala diventa l’ambiente naturale dove riflettere e rivivere i propri sogni, senza che nessuno venga ad accendere le luci e ad interrompere l’emozione provata.
La cosa bella del festival è rimanere immersi in un clima cinematografico costante, come una culla di fotogrammi, movimenti di macchina, scenari e impressioni visive che dondola e avvolge per tutto il tempo, lasciando pochissime occasioni di lasciare gli ormeggi e avventurarsi su territori che con il cinema hanno ben poco a che fare. Che sia all’uscita di una proiezione, in fila per quella successiva, al bar per prendere un caffè, durante il festival si parla e si discute solamente di cinema e arti visive, tra pareri discordanti, prospettive autoriali, e giudizi, spesso trancianti, della stampa nazionale e internazionale.
Stampa che mostra tutte le sue doti durante le conferenze stampa. I filmmaker, gli attori, i produttori si siedono attorno alla lunga tavolata bianca, pronti a rispondere alle domande dei cronisti che affollano la sala strepitanti, simili a tanti criceti in festa per l’arrivo di qualche pietanza. Sinceramente mi aspettavo qualcosa di più da questi giornalisti. Le domande poste sono spesso banali, pigre, stiracchiate, ma soprattutto ripetitive. Nel caso de La Trattativa di Sabina Guzzanti non ricordo esattamente da quante persone è stata posta la domanda: “Pensa che questo suo film scatenerà polemiche e tensioni?” Un po’ di fantasia miei cari giornalisti; almeno provateci. Se non altro l’occasione è ghiotta per ascoltare i pareri e le prospettive di tanti giovani ed esperti cineasti che, con il loro lavoro, continuano ad influenzare e a mandare avanti quest’industria bellissima e contradditoria che è il
In particolare è stato interessante quanto ha detto il direttore artistico del festival Alberto Barbera, subito dopo la cerimonia di chiusura. “A Venezia si rende onore al cinema, unica arte così vicina alla creatività quanto all’industria, e esperienza sociale condivisa tra chi opera da un lato della barricata, i professionisti, e chi riceve dall’altro, nel buio di una sala, tra applausi, disappunto, e sguardi bagnati di lacrime di gioia o piacere.”
Per supplire alle mancanze d’ispirazione o fantasia, ai giornalisti viene però fornita un’ampia ed elegante sala, completa di accesso internet e terminali dove lavorare. Essendo io al festival in quanto critico per una rivista ho dovuto servirmi spesso di questi locali per scrivere o buttare giù qualcosa. Malgrado i posti siano tanti, è sempre una baraonda e un’azzuffata per accaparrarsi i posti a sedere. Sembra un combattimento clandestino in cui in palio ci sono una sedia ed un portatile Toshiba da due soldi.
Come ho detto prima, i veri padroni del festival sono i film, e, malgrado stanchezza, noia o disappunto, si resta sempre lì, incantati davanti al grande schermo in attesa di conoscere gli sviluppi delle storie e dei personaggi, ansiosi di vedere che cosa si cela dietro la prossima inquadratura. Molti i film da ricordare, e molte anche le aspettative deluse. Accanto ad esse però anche molte scoperte, specie per prodotti che nelle nostre sale arrivano di rado oppure passano molto in sordina. Mi riferisco ad alcuni lavori asiatici o indipendenti come Court, vincitore della Competizione Orizzonti. Una storia profonda, analitica e allarmante sullo stato della giustizia in una corte indiana. E’ stato interessante assistere alle dinamiche processuali e umane del film, non potendo fare a meno di metterlo in relazione con la vicenda dei due Marò italiani ancora bloccati in India in attesa di processo da più di due anni. Dopo la vittoria di Court, che si è aggiudicato anche il premio come Leone del futuro, sono state molte le malelingue ad affermare che la doppia vittoria fosse dovuta solo alle faccende politiche in corso tra Italia e India.
Film che mi hanno colpito molto sono stati anche Il Giovane Favoloso di Mario Martone, per l’attenta, intensa, e visivamente penetrante interpretazione che ha dato sulla vita di Giacomo Leopardi, e Words With Gods, un lavoro collettivo di diversi registi, ognuno esplorante diversi aspetti della spiritualità e religiosità degli uomini. Dai deserti dell’Australia, alle montagne balcaniche, fino alle strade di una Barcellona gotica o alla terra ruvida del Messico, bagnata da una strana pioggia rossa. Ognuno degli episodi, affidati a registi diversi ma del calibro di Emir Kusturica, Amos Gitai, e Guillermo Arriaga, è uno spaccato sul rapporto degli uomini con il mistero del divino, sulle attese e i desideri che esso scatena nei loro cuori e nelle loro azioni.
Good Kill di Andrew Niccol e Pasolini di Abel Ferrara sono invece stati una delusione per quasi tutti gli spettatori, convinti di trovarsi di fronte a due cavalli di razza. Il primo parte bene e con un argomento coraggioso: l’uso indiscriminato dei droni nella guerra al terrore portata avanti dagli Stati Uniti D’America. Peccato che ben presto la narrazione scivoli verso una patetica e alquanto prevedibile soluzione, tipica di un blockbuster hollywoodiano di bassa lega. Il secondo, benché tenti in tutti modi di offrire un’immagine profonda di Pasolini, finisce con il rimanere un film superficiale e statico, peggiorato per di più dall’ibridazione dei dialoghi tra italiano e inglese. Fa senso vedere una famiglia italiana seduta a mangiare spaghetti, conversando in perfetto inglese stile California, salvo vedere poi, nella scena successiva, le stesse persone esprimersi metà in italiano e metà in inglese, confondendo e disturbando lo spettatore.
Un lavoro che mi è rimasto nel cuore è il documentario Look of Silence di Joshua Oppenhemeir. La ricostruzione degli orrori della dittatura indonesiana è viva, cruda e veramente impressionante, tenendo inchiodato alla sedia e con gli occhi sbarrati chi guarda, alle volte inorridito, emozionato, in lacrime oppure semplicemente estasiato dalla singolare bellezza dei paesaggi, e dall’emotività dei volti e delle parole delle persone che abitano il film.
Il festival di Venezia è una grande festa, un’occasione per celebrare le arti cinematografiche e rendere omaggio alle loro mille sfaccettature, approcci e legami che mantengono idilliaco il rapporto tra i produttori e i consumatori di pellicole. Così le file avanzano, i cuori si spalancano, e i 24 fotogrammi al secondo di verità si riversano negli animi di tutti noi, esattamente come la giornata tipo degli italiani di Italy in a Day di Gabriele Salvatores, fatta di rinunce, speranze, viaggi e sorrisi. Tra i cocci di un calice di champagne appena calpestato alla fine di un party e il grattare dei proiettori sugli schermi di una sala, le avventure filmiche e i loro alfieri cercano di far breccia nella gente, regalando loro tutto quello che uno storyteller può dare: speranze in forma di battute e fotogrammi.