Le luci del Ramadan
Non c’è niente di più affascinante della Cairo al tramonto in una calda serata di Ramadan.
Quando le voci dei muezzin si richiamano di minareto in minareto e dai tetti si alzano in volo stormi di passeri su un cielo color zafferano. Le strade si svuotano e nelle moschee le persone di buona volontà rendono grazie per il giorno che sta terminando. E’ come se per un attimo la città trattenesse il fiato per ascoltarsi e recuperare le energie dopo lunghe ore di digiuno.
La notte sorprende le famiglie riunite nelle case a consumare l’Iftar, mentre nelle tende che si ergono sgargianti agli angoli delle piazze iniziano a confluire i cairoti in cerca di festa. La musica sale verso l’alto e si mescola al profumo degli incensi e ai colori vivaci delle lanterne.
Ci si ritrova com’è tradizione nel piazzale prospiciente la moschea di Al Hussein, tra i negozi ambulanti e le palme con il fusto bianco di calce. Il piano è quello di perdersi nel mercato di Khan el Khalili che in quelle ore vive gli attimi di maggior frenesia.
La vecchia Cairo non dorme mai. Dalle porte aperte delle botteghe si intravedono calligrafi intenti a tracciare sulla carta caratteri dalle linee sinuose, artigiani incidere col cesello grossi vassoi di rame, ragazzetti friggere nell’olio bollente le frittelle al miele. E poi c’è chi sta seduto tra le aiuole, chi gioca a backgammon dentro ai caffè, chi sgranocchiando semi di zucca rincorre i suoi pensieri, solo tra la folla.
Nel cortile interno alla Madrasat El-Ghouri l’atmosfera è carica di energia. I dervisci avanzano verso il palco al ritmo incalzante della tabla, le vesti candide strette in vita da una fascia rossa. Le contorsioni vocali del cantante accompagnano i danzatori nel loro piroettare agile e veloce mentre le gonne colorate nel turbinio dei movimenti compongono nell’aria meravigliose geometrie.
Come molte altre cose, anche lo spettacolo dei dervisci è la versione stereotipata, ridotta a bene di consumo turistico, di una pratica millenaria che viene dal deserto e profuma di misticismo e spiritualità.
I dervisci vivono tutt’ora in comunità animate da un’intenso desiderio di incontro col divino. La danza è per loro una prassi per il raggiungimento dell’estasi e la musica un mezzo unico di avvicinamento ad Allah. Il danzatore al centro ha ora infatti le pupille rivolte verso l’alto e la fronte imperlata di sudore. Il suo stato di trans ci svela l’essenza di ciò che sta prendendo forma davanti ai nostri occhi: un’esperienza privata, personale di ricerca e preghiera.
La luna sta compiendo il suo tragitto in un cielo di stelle e l’umidità nell’aria mi avverte che il mattino non tarderà ad arrivare.
Siamo ancora in molti seduti ai tavoli disposti ai margini delle strade, a sorseggiare il succo di tamarindo in attesa di consumare il Sohour. Arrivano il ful, la ta’amiya, lo za’atar… ossia piatti di fave bollite, polpette di ceci fritte, una miscela di spezie servite con l’olio d’oliva. E poi il pane, lo yogurt, il miele.
Luci che corrono da una parete all’altra allungano ombre morbide in quest’angolo antico della città, dove per la prima volta in tanti mesi provo una sensazione indefinita che mi riporta col pensiero alla mia infanzia, a una tavola imbandita e ad un albero in ghingheri con sotto dei regali.
Come allora, anche qui si sacrifica, si offre, si condivide, si fa festa. Intenzioni e sentimenti non hanno bisogno di etichette e lo spirito dell’uomo è davvero troppo vasto per esser limitato dal timore della differenza.
Torna la voce del muezzin. Questa volta, tra i grattacieli, annuncia l’alba.