Mi piace intalliare
Nei ristoranti dove siete soliti mangiare, il conto lo chiedete o ve lo portano silenziosamente al tavolo?
Pensateci bene, perché questo piccolo dettaglio potrebbe rivelarsi un indicatore culturale molto interessante. Non ci avevo mai fatto molto caso, ma a pensarci bene in Italia mi è successo poche volte che la cartellina in pelle o il vassoietto metallico col conto mi venisse poggiato sul tavolo senza troppa gentilezza, mentre ancora le pupille gustative annegano nell’intenso aroma del caffè di fine pasto. Di solito infatti succede così: dopo aver rollato una sigaretta ed espresso a pieno il concetto dell’ultimo discorso, sono io stessa o uno dei miei commensali a chiede il conto al cameriere. A Barcellona l’etichetta è più o meno la stessa, ed è per questo che non avevo mai nemmeno fatto caso a questo modo di fare.
La comunità americana di studenti che ho conosciuto in città mi ha fatto riflettere per la prima volta su questa questione del conto. Per loro è stato uno shock entrare in un ristorante senza essere accolti, varcando semplicemente l’entrata e accomodandosi al tavolo prescelto al momento. E trovano ancora più assurdo il fatto che, dopo aver consumato il pasto, il conto non si materializzi magicamente sul tavolo, nel giro di pochi attimi. Mi hanno raccontato di momenti di forte imbarazzo, nei quali si guardavano in faccia, poi intorno, cercando il cameriere con gli occhi, invano. Come è possibile che debba essere il cliente a chiedere il conto? Perché si perde tutto questo tempo? È inutile aspettare così… aspettare che un lavoratore faccia quello per il quale è pagato. Il servizio clienti europeo ha delle falle incredibili.
Poi gli americani hanno chiesto spiegazione agli spagnoli e, alla fine, dopo qualche mese di full immersion nella città catalana, impastandosi piano con i costumi del posto, ci sono arrivati anche loro.
Portare il conto a fine pasto, per la conviviale etichetta mediterranea, significa compiere un gesto di scortesia. Equivale quasi a un: “insomma, questo è quanto mi devi, quando te ne vai?”.
Considerare il tempo preziosissimo e perennemente da sfruttare fino all’ultimo secondo è una filosofia molto diffusa nella cultura americana dei workaholic. Il cibarsi inteso come necessità vitale, non come piacere quotidiano. Considerare il caffè come un carburante da ingurgitare camminando e parlando al telefono, per ottimizzare i tempi, sorseggiarlo da grandi tazzone usa e getta con le cinte di cartone marrone ondulato per non bruciarsi le dita. Per noi invece è oro nero della socialità, tazzine in ceramica riempite di vita liquida, momenti di relax e chiacchiere, la scusa per passare un pomeriggio seduti al bar.
Esiste un modo di dire napoletano che adoro con tutto il cuore: intalliare.
Il suo significato oscilla fra l’indugiare, il gingillarsi e il lasciar passare il tempo senza far niente di rilevante. “Fra una chiacchiera e l’altra ho intalliato tutto il pomeriggio!”. Ma attenzione, intalliare non significa semplicemente perdere tempo in cose inutili. Significa spenderlo in modo rilassato, svolgendo azioni naturali, spontanee, sociali e piacevoli. L’intalliarsi è pratica diffusa, rispettata e, sotto sotto, molto apprezzata. Non saremmo gli stessi se non intalliassimo. È intalliando che assaporiamo a pieno la nostra cucina, che scorgiamo una ruga di dissenso nell’amico che ci parla, che intavoliamo discussioni su discussioni e ci confrontiamo, ci infervoriamo, litighiamo, e poi sorridiamo.
Forse per un americano intalliare equivale a perdere tempo; a me piace pensare equivalga a viverselo.