Paradisi di Sale…Fortezze di Vetro
Una striscia verde di montagne; ancora incappucciate da un cappello bianco ghiaccio che scende come un rivolo dalle pendici fino a diventare strapiombo sulla roccia nuda dabbasso.
Una spirale da un lato, una lingua di terra dall’altro. Una baia con due grosse catene montuose che si stendono sul profilo dell’orizzonte di cui non si riesce a vedere la fine: incatenandosi e andando parallele l’una all’altra formano un corridoio d’acqua nel mezzo, una lunga passerella azzurra di onde, schiuma e salsedine che si perde poi nell’infinito del mare al di fuori della baia.
Le bianche cime dei ghiacciai sovrastanti, il chiarore dell’acqua entro cui si riflettono, appena increspato dal passaggio dei granchi e delle lontre che vi nuotano nel mezzo: insieme sono un canyon di ghiaccio e acqua, una tavolozza di neve e spuma che, rimbalzando lungo gli scogli sui lati, vi lascia sopra l’odore del sale, della vita marina che si risveglia. Paradisi perduti.
Questa è la baia di Seward, situata su di una penisola che è la punta più a sud dell’Alaska. Laggiù pare che il cielo, il mare e la terra diventino una cosa unica, un mosaico cucito a ridosso sulla buccia della terra mantenendone intatti i contorni e i colori.
Seward è una cittadina quasi fantasma: pochi i ristoranti nelle due viuzze principali, grosso affollamento di pescatori e di amanti degli sport acquatici che scelgono come dimora estiva quest’angolo di paradiso a metà strada tra l’alta montagna e il mare.
Infatti Seward mescola perfettamente le due cose. Le montagne innevate e i ghiacciai eterni sovrastano dall’alto il porto stracolmo di barche, yacht e vele spiegate. Le banchine e le imbarcazioni farebbero pensare di trovarsi in un qualche luogo della costa azzurra tipo Cannes, con le barche dei ricchi ormeggiate alla banchina, tutte ammassate insieme all’imboccatura del porto.
La sorpresa è scoprire che questa sensazione si ha solo guardando in basso, verso il porto e le sue luci. Ma se si alza a poco a poco la testa le montagne rocciose e aguzze riportano immediatamente un sapore di rarefazione: la consapevolezza di trovarsi tanto vicini al mare quanto ad un passo dalla punta del cielo.
Un luogo, Seward, che rimanda a ricordi morbidi, impressioni di essere separati dal mondo e dagli uomini; talmente isolati e distanti da sentirsi quasi più vicini all’essenza stessa di creato. Un ecosistema dove leoni marini e aquile reali e balene dalle lunghe code bluastre sollevano polveroni d’acqua e li schiantano alla base delle rocce a pochi metri di distanza. Il porto di Seward, la sua baia di ghiaccio e le voci sussurrate sono come correnti rapide che fanno sentire sperduti e sbandati alla deriva di un mondo sconosciuto, e allo stesso tempo danno l’impressione di essere collegati al centro di un eremo dove la natura ha potuto modellare il paesaggio senza disturbo, restituendo il suo spettacolo di acqua verde smeraldo, appena sfiorata dalla luce accesa della neve montana d’intorno.
Seward sembra un’oasi dipinta con gli acquerelli; un luogo che pare non esistere per davvero neppure quando vi si sta immersi dalla testa ai piedi. E la dolcezza di sparire, di non essere più, di far parte di un quadro surrealista insieme alle meraviglie naturali che la baia preserva allo sguardo del mondo reale, è una compagna costante che neppure sbattendo le palpebre a velocità folli è possibile allontanare.
Purtroppo, o per fortuna, le palpebre prima o poi sbattono così veloci che il panorama gira, cambia forma e consistenza. Così dalla punta più a sud dell’Alaska si naufraga sulle coste atlantiche di un luogo che, per altre ragioni, sembra anch’esso non esistere affatto.
Sto parlando dell’unica metropoli statunitense che con gli Stati Uniti ha ben poco a che vedere. Lei, (e dico lei perché non è possibile non percepire la sua indole di donna ribelle e volubile), è stata chiamata in molti modi. Chi la fondò vi impose il nome di New Amsterdam, ma quell’appellativo non lo mantenne a lungo, venendo presto sottratta ai mercanti suoi fondatori da gente proveniente da un’isola europea spesso avvolta in una spessa coltre di nebbia. Da quel giorno i suoi nuovi padroni la ribattezzarono nel modo con cui oggi è conosciuta in tutto il mondo: New York City.
Passare dall’isolamento ancestrale di Seward al chiasso cosmopolita della Grande Mela è stato simile ad entrare nel buio di una grotta nel deserto e sbucare fuori su di un’autostrada dove il rombo delle ruote delle macchine e degli autocarri lasciano di primo acchito spaesati, scoordinati, ancora increduli per il passaggio così brusco e repentino.
Non credo esista un posto al mondo in grado di trasmettere le stesse vibrazioni di New York. Forse il modo migliore per rendere i sentimenti che lascia sulla pelle è pensare ad una trottola che gira vorticosamente, tirando in mezzo all’occhio del ciclone brandelli di storia, popoli variopinti e usanze dai passati mescolati, tirandone fuori qualcosa di nuovo e irripetibile. Che si cammini lungo le insenature di vetro che i grattacieli costruiscono nel Financial District o tra i plasmi colorati di Times Square, oppure ancora tra gli appartamenti tirati a lusso sull’Upper East Side, che sovrastano le carrozze con i cavalli che fanno la spola tra Central Park e la 5th Avenue, quello che si respira è l’umore di tante città e paesi che qui, come una colonia di ragni operosi, hanno intessuto una ragnatela così grande da essere diventata il centro del mondo.
New York è un organismo vivente, che succhia le vite dei suoi abitanti restituendogliela indietro come un fuoco fatuo, come un carnevale di arti e mestieri che lavorano senza sosta, mai sazi di un’ispirazione e di una visione dinamica che gode di un proprio motore immobile.
E’ difficile non innamorarsi degli artisti di strada accovacciati sui loro strumenti sotto l’arco di Washington Square Park nel Greenwich Village, oppure restare indifferenti al bruciore rosato del sole del tramonto che si divide in tanti piccoli spicchi sui ristorantini lungo Broadway, sull’Upper West Side.
New York e Seward; due posti agli antipodi, due paradisi eppure legati nella mia memoria da un filo così sottile e flebile da diventare di corda dura, e capace di rimbalzarmi nella mente come un gigantesco aquilone di voci che sussurrano in un angolo di notte che, senza dare disturbo, trova sempre la propria via verso il mattino.