Le tre candele. L’inizio
Tre candele facevano luce nella notte mentre le forme del castello si mitigavano nel mare. Da casa mia Napoli sembrava un luccicare di fuochi d’artificio, una tempesta di lucciole impazzite, un presepe illuminato a festa. Passai tutta la notte a guardare il buio, reso dolce dalla luce silenziosa di quelle tre candele, una in fila all’altra. Erano appoggiate sul vecchio tavolo di legno della veranda, accarezzavano il profumo della bouganville, mi ricordavano che sulla strada c’era ancora notte da vivere per chi correva sui motorini per arrivare al porto, risalire la Riva Destra, far due chiacchiere. Bere un birra fredda. Girai più di una volta il cucchiaino del caffè nel bicchiere vuoto. Lo portai alle labbra. Ne sentivo ancora il sapore.
Mio padre accendeva tre candele. Una per me, una per Tina, l’altra per lui e mia madre. Io ne ero affascinata. Erano magiche.
Da piccola ero eccitata appena se ne andava la luce elettrica. Trovarsi al buio, senza punti di riferimento, mi divertiva. Giocavo con il tatto, camminavo appoggiata alle pareti, con le mani che correvano lungo le mura fredde di notte. Capitava che ci scontravamo con mia madre. Ogni volta, sussultava dalla paura e imprecava contro mio padre. “Gino! Gino! Accendi le candele , cosa aspetti, non vedi che siamo al buio?”. Io ridevo divertita, mentre mia sorella Tina rimaneva rannicchiata nel letto, fino a che non vedeva la luce fioca della candela farsi spazio dentro casa nostra.
Mio padre accendeva tre candele. Una per me, una per Tina, l’altra per lui e mia madre. Io ne ero affascinata. Erano magiche. Casa mia, di notte, illuminata solo dal bagliore tremulo di quei ceri lunghi e secchi era un posto inesplorato. In quelle notti da black out le mura dell’appartamento sembravano infinite. In quelle notti chiudevo gli occhi e immaginavo un mondo tutto mio. Fuori le bombe buttavano giù i ponti di Firenze. Era il millenovecentoquarantaquattro. Io avevo sedici anni. La guerra non mi faceva paura.
Non ricorderò mai la guerra come un brutto periodo, per me era un gioco. Cambiare casa, nascondersi, mettere i diamanti di mia mamma e l’oro di casa nello scarpone del babbo non mi turbava. Niente poteva farlo. Avevo l’incoscienza dalla mia parte, la sicurezza degli adolescenti che niente ti possa scalfire. Mia mamma piangeva. Mio padre non aveva tempo di farlo, doveva badare a tirare avanti. Ma le bombe non facevano paura nemmeno a lui. Era nato povero, niente può farti paura a parte la fame. Mia madre era ricca, i negozi d’oro su Ponte Vecchio erano della sua famiglia. A lei poteva far paura tutto. Io tornai a vedere le macerie di casa nostra. In Via Por Santa Maria c’era la polvere. Faceva fumo. Ma la terra brillava. Erano i nostri lampadari di cristallo. Frantumati. Luccicavano di sole, come il cellulare che si illuminava adesso sul tavolo. Era Cristina, la mia figlia maggiore.