Un giorno a Linosa
Acqua e Fuoco. Elementi contrapposti di una stoica battaglia in cui l’una spegne l’altro senza mezze misure, in maniera brutale, definitiva. Cosa potrebbe accadere, se in un’improbabile circostanza potessero coesistere? “Assolutamente nulla”, potremmo affermare con certezza, ma le nostre certezze crollerebbero come un castello di carte davanti allo spettacolo di Cala Pozzolana: siamo a Linosa, la “ perla nera “ del Mediterraneo.
A Cala Pozzolana ci si ritrova catapultati all’interno di un cratere collassato per metà e parzialmente ricoperto dal mare. Uno spettacolo geologico di rara bellezza e di forte impatto emotivo. E’ tutto ciò che resta dell’epico scontro tra Vulcano e Poseidone. Come su di un vero campo di battaglia, in cui l’acqua ha trionfato, solo la terra è rimasta a piangere il fuoco perduto. La gamma tonale che varia dal giallo intenso dello zolfo al rosso degli ossidi di ferro è come sangue su di una parete squarciata che si allunga e si contorce verso il cielo. Una spiaggia a forma di mezzaluna, ricoperta da sassolini neri come il carbone, ultimo sito di deposizione nel Mediterraneo sud orientale italiano, custodisce durante il periodo di deposizione le uova della tartaruga Caretta caretta. Un segno di resurrezione dopo tanta geologica violenza; è incredibile come la vita si attacchi a tutto, pur di andare avanti.
Linosa. Approdo per i naviganti , rifugio per chi scappa, natura selvaggia e cruda, sole e sale che mi cuociono la pelle; mi riesce difficile concentrare le energie, il mio occhio “fotografico” è al pari di quello di un giapponese a Venezia. Vorrei abbandonarmi al piacere dell’acqua del mare che caldamente mi lambisce i piedi, ma la fotografia è la mia droga, un’amante passionale che sempre mi cerca e mi chiama, non posso stare ferma: noleggio uno scooter, ho solo un giorno per scoprire Linosa “la nera”, sopra e sotto l’acqua.
L’unico centro abitato, visto il numero esiguo di abitanti, solo 500, consta di poche colorate casette, un’architettura semplice, in completa armonia con l’ambiente; qui si possono trovare i pochi negozi, bar e ristoranti dell’isola. Non ci sono alberghi, ma chi vuole alloggiare a Linosa può farlo affittando un appartamento dai locali, che durante il periodo estivo si trasformano da contadini a imprenditori del settore turistico, ma sempre con la gentilezza e il calore delle genti del sud.
Un’unica strada si snoda in lungo e in largo, su e giù, sino a compiere il periplo dell’isola. Seguendo un itinerario obbligato, tanto che non si capisce se la strada sia opera dell’uomo o se la natura abbia benevolmente assicurato un percorso! L’entroterra rivela il cuore di Linosa, rovente e assetato, sicuramente eredità di padre Vulcano. Con centinaia di fichi d’india e capperi in fiore, insieme alle piante di lenticchia che crescono rigogliose, l’isola indossa indossa il suo vestito più bello!
Raggiungendo la vetta di Monte Vulcano (186m ) si può godere un panorama a trecentosessanta gradi: l’acqua cristallina più blu del blu dipinto di blu, screziata dal verde riflesso delle pareti a picco accarezza la mia anima di fotografa, e mai dimenticherò quei colori, che si riproporranno invadenti anche sott’acqua.
Il turismo subacqueo è di fondamentale importanza per l’economia di Linosa. Sono molti i siti da visitare in questo mare, ricco di pesce e reperti archeologici, ma l’immersione per eccellenza, considerata una delle più spettacolari del Mediterraneo è quella alla Secchitella, che rende molto orgogliosi i linosani e attrae i tanti subacquei che come me vengono a Linosa per immergersi qui.
Nel breve tragitto da compiere in barca dal porticciolo al sito di immersione ho l’opportunità di ammirare l’isola vulcanica da lontano: è davvero un gioiello di rara bellezza, e ora capisco perché la sua gente ne è cosi innamorata.
Finalmente arriviamo a destinazione. Il mare non è una tavola, ma questo non m’impedisce di ammirare la sommità della montagna che da 80 metri sul fondo sabbioso del mare si erge poco sotto il pelo dell’acqua. Un briefing dettagliato e veloce preannuncia che vedremo cose meravigliose. La fantasia corre; con una capovolta sono in acqua.
E’ calda.
La visibilità è disarmante. Sembra che l’acqua non ci sia; più che una subacquea mi sembra di essere una paracadutista sospesa nel cielo. Resto qualche istante ad osservare un banco di pesci coloratissimi: le donzelle pavonine (Thalassoma pavo), che a frotte si accaniscono sulle alghe in cerca di cibo. Iniziamo la discesa tenendoci alla catena che ancora il bellissimo gozzetto di Guido, mio compagno di immersione.
Una leggera corrente contro ci ostacola, ma appena ci portiamo in parete si affievolisce. Il panorama subacqueo è mozzafiato: il pinnacolo basaltico che costituisce la Secchitella mi appare imponente, lastroni di roccia nera si protendono nel blu, l’architettura lavica della parete è molto articolata. Spaccature, insenature, grotticelle: il regno della cernia bruna, che ama questo tipo di fondale.
Ogni più piccolo centimetro quadrato è ricco di vita, la madrepora arancione ricopre le pareti sino in superficie. Ci portiamo a quota -30m. La luce è tanta e il fondale appare sempre più vicino di quanto non sia. Giro intorno a una sporgenza rocciosa e mi trovo davanti ad un mondo di pesci: grandi saraghi e barracuda volteggiano nel blu, solitari: sono esemplari adulti. Cernie brune in accoppiamento sembrano giocare davanti ai nostri occhi durante il complesso rito di corteggiamento; riesco ad avvicinarmi loro più del solito: sono meno diffidenti dell’uomo in queste acque, segno che sulla Secchitella non si pesca più, oramai, da molto tempo. Mi adagio su una sporgenza della parete, come un pescatore in apnea all’aspetto, quasi trattengo il fiato per riuscire a fotografarle, ma non riesco ad ottenere lo scatto dei miei sogni, quello che da tempo cerco di realizzare, e così ricomincio di nuovo l’aspetto, l’agguato e lo scatto. Alzo lo sguardo, scambio un ok con il mio compagno e proseguiamo lungo la frastagliata parete. Una piccola e delicata bavosa adagiata su un organismo incrostante rosa richiede uno scatto. Il suo sguardo mi fa tenerezza, chissà perché tendo sempre ad associare alle espressioni dei pesci un qualcosa di umano.
All’interno di una fessura che corre per molti metri parallelamente alla parete numerosi re di triglie mi osservano incuriositi, e sembrano specchiarsi nella lente della macchina fotografica.
Poche pinneggiate più in là fanno la loro comparsa i dentici, in caccia dei tanti piccoli pesci che sciamano come api ad ogni passaggio del predatore. Raggiungiamo un canyon che taglia a metà la sommità della montagna. Una prateria di posidonia custodisce un ceppo d’ancora d’epoca romana, a circa 11m di profondità, presumibilmente del sesto o settimo secolo a.C. Cerco di fotografarlo al meglio ma la sabbia e la posidonia in movimento non mi renderanno semplice la cosa.
Smaltiamo gli ultimi minuti di immersione come sul tetto d’un mondo sommerso; le castagnole (piccoli pesci bruni ) e le donzelle riempiono questo cielo fatto d’acqua, illuminato dal sole di mezzogiorno.
Riemergo soddisfatta, avrei voglia di cambiare la bombola e reimmergermi immediatamente, ma non posso; mi stendo al sole e ascolto Guido raccontare la sua storia di subacqueo e di uomo, ammaliato da Linosa a tal punto da lasciare Roma tanti anni fa per stabilirsi qui in pianta stabile. Conversando d’immersioni e avventure il tempo passa veloce.
Il gozzo si porta lentamente nelle vicinanze della costa; le colate laviche, erose in forme contorte dal vento, sono impressionanti. Costeggiamo l’immensa sciara del fuoco, sulla quale spiccano, brillanti come diamanti, alcuni candidi gigli di mare.
Ora mi chiedo se sia stata violenza o amore puro a generare questa terra fertile, bagnata dal sudore dei suoi abitanti, che con fatica coltivano la terra e con passione proteggono i tesori naturalistici di questo ultimo paradiso mediterraneo, tutto italiano.