Ciro Esposito. Morire per andare a una partita di pallone?
Ciro Esposito.
Nome comune a Napoli. Un nome e un cognome così diffusi in questa città al pari di Mario Rossi in Italia.
Ma oggi io non voglio parlare di un Ciro qualunque.
Mi voglio riferire a quel Ciro Esposito che, insieme a tanti altri tifosi, il 3 maggio 2014, si stava recando allo stadio romano per assistere alla finale di Coppa Italia che il suo amato Napoli doveva disputare. Invece a quello stadio non ci arriverà mai. Perché un gruppo di delinquenti incalliti romanisti (ma potevano essere di qualunque altra fede calcistica), già per altro conosciuti dalle forze dell’ordine, hanno cominciato ad insultare e provocare i napoletani, che hanno risposto alle provocazioni.
La prima domanda che sorge spontanea è: “Che c’entrano i romanisti se la finale di coppa era Napoli-Fiorentina?”. Ecco, a volte la competizione sportiva svanisce e lascia il posto ad odio puro e semplice che sfocia in questo. Nel ricovero di un ragazzo trentenne in fin di vita. Perché? Per rivalità tra ultras. Anzi no, Ciro non faceva parte di gruppi ultras. Ma non cambia il succo. Era un tifoso come tanti, come il mio fidanzato, mio padre, mio fratello, innamorati di quella maglia azzurra, per semplice passione.
Pura e pulita passione.
Chi era allo stadio quella sera, racconta di un clima surreale e certamente non festante.
Uno stadio pieno di silenzio rumoroso.
Chi era a casa a guardarla in tv, come me, era sgomento, e preoccupato solo di telefonare ai propri cari che erano lì all’Olimpico.
Se ne sono fatti di discorsi sulla tremenda vicenda, anche nei giorni seguenti, sviando l’attenzione su cose di minor importanza, o girandoci attorno. Il fatto però continuava ad essere uno solo: rischiare di morire per andare ad assistere a una partita di calcio non può essere ammissibile.
Allora tutti ci siamo interrogati su come potesse essere possibile che quelle auto, quei pullman, avessero seguito proprio quel percorso per raggiungere l’Olimpico. Pur sapendo che quel tale, quel De Santis, ex ultrà giallorosso, insieme ai suoi compari, si trovava stabilmente in quella zona. Come mai, i tifosi napoletani, non erano abbastanza scortati e protetti da qualsiasi forma di istigazione, attacco, offesa? Sono domande che sorgono spontanee.
Ora però non è questo che mi batte nel cervello. L’unica frase che mi suona nella testa è stata detta al telegiornale: “Ciro Esposito è morto. Dopo cinquantadue giorni di agonia, non ce l’ha fatta. E’ da poco deceduto per insufficienza multiorganica perché non rispondente alle terapie mediche e di supporto alle funzioni vitali”.
Il cielo è grigio sopra Napoli. Il cielo è grigio su tutta l’Italia.
Non si può morire così. Non per seguire lo sport più amato dagli italiani.
Non si può lasciare per sempre la famiglia, la fidanzata e gli amici per andare a vedere una partita di pallone.
Il parallelo con l’arte oggi mi risulta davvero difficile.
Eppure devo provarci comunque. E proprio con un’opera della città di Ciro, della mia amata città, Napoli. Si, posso riuscirci.
Il Cristo velato.
L’opera si trova nella splendida Cappella Sansevero, fatta costruire nel 1590 per contenere i monumenti funerari della famiglia de’ Sangro, principi di Sansevero. La cappella oggi si presenta così come il principe Raimondo de’ Sangro, mecenate, inventore, letterato, nonché alchimista e Gran Maestro della Massoneria del Regno di Napoli, l’aveva concepita. Un tempio della scultura che esalta la casa nobiliare tramite monumenti sepolcrali allegorici, simbolo delle virtù dei defunti. Unico elemento pittorico è la volta affrescata nel 1749 da Francesco Maria Russo con la Gloria del Paradiso.
Protagonisti assoluti dell’ambiente sono i rilievi scultorei. Meraviglie del virtuosismo come il Disinganno (Francesco Queirolo) o la Pudicizia (Antonio Corradini).
Ma l’opera più celebre rappresenta il Cristo deposto dalla croce, avvolto nel sudario. Giuseppe Sanmartino, tra i maggiori artisti napoletani del pieno Settecento e abile modellatore di presepi, dà vita, nel 1753, ad una scultura di grande spessore naturalistico. La suggestione del velo sudario che ricopre il corpo del Cristo è commovente.
Il Cristo, posto al centro della Cappella, disteso su un materasso e tre soffici guanciali, è ricoperto da un sottile velo che evidenzia tutti i suoi particolari anatomici; accanto al cadavere la corona di spine, la tenaglia e un chiodo completano l’iconografia. Sanmartino riesce a modellare il corpo di Cristo in modo estremamente realistico, sofferente, con il capo abbandonato, con i particolari delle mani sottili martoriate dai chiodi e, soprattutto, con l’effetto estremamente reale del sudario che sembra attaccarsi sulla pelle.
Addirittura Canova, che una volta tentò di acquistare l’opera, si disse disposto a dare dieci anni della sua vita, pur di essere lui l’autore di quel capolavoro.
L’unico parallelo con l’arte che oggi mi viene in mente è questo. Forse il solo possibile.
L’unico che mi sembra così delicato da non poter in alcun modo ferire ulteriormente Ciro e la sua famiglia, tanto composta e pacata.
L’unico che può rappresentare la morte in modo quasi soave e rilassato.
Ti saluto Ciro, con la speranza che si possano portare nuovamente i bambini allo stadio, come quando ero piccola io. Come quando era una festa la domenica, vestirsi d’azzurro, e andare con papà al San Paolo a vedere il grande Napoli che si incontrava con una delle forti squadre dell’Italia Nostra.
Come anche tu avresti voluto che fosse, quel maledetto 3 maggio 2014.
Ciao Ciro.