La metafora della valigia
Sono mesi che non disfo più la valigia. Perché sono mesi che non sto più di dieci giorni nello stesso posto. Faccio giusto un cambio di biancheria, metto a lavare quella vecchia, entro nella mia stanza guardaroba, guardo tutti quei panni appesi per dieci minuti e finisco con lo scegliere sempre gli stessi tre maglioni.
E, a volte, un vestitino. Dipende dove sto andando.
In pratica penso di aver devoluto a Trenitalia il 30% del mio stipendio, in questi ultimi mesi. Perché, no, non viaggio per lavoro. Viaggio perché ho un lavoro che può essere fatto ovunque. E sono in una fase della vita dove lavorare in casa mia mi ha scocciato. Quindi cambio case.
Dormo anche sui divani, sporco poco e cucino bene, mi invitate?
Insomma, vi avverto che questo post doveva intitolarsi: quando guardare fisso un vestito per più di trenta secondi ti fa rivalutare il significato della tua esistenza. Sì, chiamerò uno psicologo entro fine settimana.
Manco a farlo apposta (se vi siete persi le puntate sulla internetdipità cliccate qua), ieri finisco su un articolo che si intitola: la metafora dello zaino. Carino, con un po’ di cose ovvie, ma pur sempre funzionale. In pratica il ragazzo che scrive ha girato il mondo con uno zaino in spalla. E dice: per girare il mondo con uno zaino, lo zaino non deve essere una zavorra. Può aumentare di peso, man mano che fate un po’ di esercizio ma, per il bene della vostra scoliosi, sarete per sempre obbligati a una selezione. Cita anche Chris McCandless, in arte Alex Supertramp, protagonista di Into the wild:
Un uomo dovrebbe possedere solo ciò che riesce a trasportare in uno zaino a passo di corsa.
Che possiate fare a meno di correre o no, la sintesi è che potrete metterci dentro solo le cose essenziali. Tra una maglietta nera e una maglietta verde pistacchio tendente al lime fashion 2014, meglio portarsi quella nera, che si abbina un po’ a tutto. E anche se siete all’inizio di uno zaino di tredici chili e vi sembra di avere spazio a sufficienza per metterle entrambe, non vi ingannate, non è così.
Fare uno zaino comporta il taglio dell’inutile. E l’articolo chiude con una domanda catartica che proprio nessuno si aspetta: non è così anche nella vita? No, ma dai.
Ora, io sono donna e lo zaino in spalla col cavolo che me lo porto. Primo, ho già il pc, che nella scala delle necessità imprescindibili per un’esistenza serena è praticamente a parità con la biancheria. Secondo, solo la piastra e il beauty case peseranno quattro chili. Fate presto, voi, a non calcolare la pelle secca, la ricrescita dei peli, l’umidità effetto crespo e queigiornilì. Che ne sapete dei problemi.
Quindi la mia è e sarà: la metafora della valigia Ikea con le ruote. Per la versione maschile, andate da lui.
Il tema dell’inutile mi si è presentato con una certa prepotenza guardando i miei vestiti prima di andare a Bologna. Perché mi sono sforzata, di passare quei dieci minuti davanti all’armadio. Perché in realtà io una valigia fatta ce l’avevo già, dovevo solo fare F5 nella parte della biancheria. Però ho detto: dai Fra, ti metti questo maglione da quattro mesi (l’ho lavato, nelle pause, giuro), toglilo da qui e prendine un altro.
Quel maglione però non solo mi sta bene e si abbina a tutto, ma è già lì dentro bello piegato che mi guarda come un Minion di Cattivissimo me e mi dice in maglionese: Sì dai, dove andiamo questa volta? E per i veri raminghi è una violenza cerebrale non ascoltare le sue urla di dolore mentre gli rispondi: no, stavolta tu non vieni.
Poi vado nel mio guardaroba. Uno dei motivi per cui non butto quasi mai quasi niente è che ho dei serissimi problemi di memoria. E gli oggetti mi aiutano a riaprire cassetti che sennò resterebbero al buio per sempre. Quindi ho ancora: maglioni del liceo, maglioni regalati dalla nonna, dalla mamma, dalla zia, dalla cugina del fratello del mio amico con cui andavamo tanto d’accordo, chissà che fine ha fatto, come starà, avrà un lavoro, avrà dei figli, ma chi gliel’ha fatto fare, poverina se la incontro le do una pacca sulla spalla senza spiegarle niente, lei saprà il perché.
Ma stavolta, li guardavo e pensavo: magari al cambio di stagione però li butto, o faccio un mercatino equo e solidale con le mie amiche. Primo perché per come ne sto parlando sembrano davvero quattro cose e invece occupano più o meno una parete intera di un metro. E mezzo. E poi perché arrivi a un punto nella vita, in cui il superfluo ti sfianca. Come mai ha fatto prima. Non sono più ricordi. Sono zaini da cento chili messi tutti uno sull’altro, tutti sulle tue spalle. Sono zavorre che ti tengono attaccata a parti di vita che non ti appartengono davvero più. E questa frase non mi mette la tristezza che pensavo avrei provato, a un certo punto, arrivata al dover dire addio alle cose.
È che succede e neanche te lo aspetti. Succede che dici basta. È il momento in cui tutto quello che hanno significato per te ha la stessa forza, con o senza il loro ingombro. È che ora sei pronta per fare spazio ad altro, e a meno.
Come finisce questa storia? Torni dal tuo maglione e gli dici: Ciao, scherzavo, stavolta andiamo a Bologna. Lo ripieghi per bene mentre lui sospira, prendi cinque mutande, una canottiera e tre paia di calzini, e ti accorgi che sei pronta così, ad andare nel mondo. Con tutta la tua parete di guardaroba a farti da storia.
Però no, alle rotelle non ci rinuncio. Sono pur sempre una signorina.