Kri: salvataggio di un’isola
Le hanno usurpato il nome, donandolo con generosità a un’isola che ospita l’omonimo resort. Le stanno strappando gli alberi. Morirà. Questo è il suo destino. In un atto di compassione dovuto, l’oceano se la riprenderà tutta, granello di sabbia dopo granello di sabbia, per farla rinascere in un altro luogo, in un altro tempo.
Una creatura gentile che langue: questa è Kri. Un tempo era una piccola isola dell’Arcipelago di Raja Ampat, provincia indonesiana all’estremità occidentale della Papua Nuova Guinea. Ora è ridotta a una lingua di sabbia, in quest’angolo sperduto del mondo, su cui i pochi turisti che giungono adorano camminare.
Sono giunta a lei dolorante e con l’umore nero, che più nero non si può. Dall’altra parte del pianeta, il viaggio della vita, le più belle immersioni al mondo apparecchiate davanti ai miei occhi, e io ho l’otite!
Approdo sulla sua spiaggia, come un relitto. Abbandonata dal resto della ciurma di fotosub con un cestino da picnic e le mie macchine fotografiche, sento esplodere la rabbia dentro di me. Era meglio se mi lasciavano una pistola con un colpo in canna! Non c’è niente di più brutto per un fotografo subacqueo che guardarne altri che s’immergono alla faccia sua! Maledetta otite!
Ma non mi piace perdermi d’animo. Mi fascio la testa con una maglietta per non bagnare le orecchie e inizio a vagare nella laguna con l’acqua alle ginocchia. Trascino la mia macchina fotografica scafandrata, è pesantissima! Una corrente contraria m’impedisce di procedere. Potrei cambiare il senso di marcia, ma non voglio. E’ come se lottassi contro me stessa. Il richiamo del blu è potente, potrei indossare la maschera, le pinne e mettere la testa sott’acqua, ma lei stessa mi frena come se la corrente fosse una mano che mi impone uno stop inderogabile.
Sono stanca di lottare. Torno a riva con le lacrime agli occhi, quasi accecata dal sole che finalmente si degna di scaldare il mio cuore infranto.
Accasciata sulla battigia, come uno straccio portato a riva dalle onde, mi faccio asciugare del vento. Un fastidioso pizzicore sulle gambe mi fa scattare in piedi come una molla, piccole pulci di mare che vivono nella sabbia, mi punzecchiano. È stato in quel momento, privata del mio cieco egoismo, che l’ho vista per la prima volta e ho sentito il suo lamento.
Strana isola questa Kri, non ha la classica forma ovale o circolare, è come se ne fosse stato tagliato via un pezzo. Una parte rialzata, a circa due metri, massimo tre, sul livello del mare è ricoperto da radi cespugli verdi, e pochi, pochissimi alberi: pini casuari, per la precisione.
Cammino sulla linea di confine tra acqua e mare, pezzi di legno costellano il basso fondale. Volto la testa verso sinistra: decine di alberi sradicati giacciono in mare, le radici al vento oramai secche e levigate. Mi avvicino, sono in piedi nel bel mezzo di un campo di battaglia: non posso più procedere per questa via. Rientro in acqua, cammino nella bassa laguna, blocchi di corallo e rami mi costringono a fare un giro molto largo. Sono talmente impegnata a guardare dove metto i piedi che perdo il senso dell’orientamento: cerco l’isola per fare il punto. Il riverbero dell’acqua, il dolce e instancabile sciabordio delle onde, mi mandano quasi in trans.
Kri è lì davanti a me: sofferente. Spogliata della sua struttura arborea che protesa verso il cielo la sosteneva, perisce. Sgranocchiata dal mare come una mela, si consuma onda dopo onda.
Il livello dell’acqua nella laguna non cala mai, segno che sto camminando su quella che era Kri una volta. Il corallo non curante del destino altrui ha iniziato a crescere rigoglioso, ossigenato dalla circolazione dell’acqua.
Mi avvicino sempre più al cimitero degli alberi. Tronchi di tutte le dimensioni giacciono abbandonati, anneriti dal fuoco, segati e gettati via. Non sono i resti di un’antica civiltà ma quelli di una recente inciviltà.
Kri è situata nel bel mezzo di un canale che separa quattro grandi isole. Da sempre è stata utilizzata dai locali come punto di ristoro durante la navigazione. I pescatori la utilizzano come stazione di riposo: tagliano gli alberi, vi si costruiscono un riparo per la notte e accendono fuochi.
L’ecosistema di un’isola è già di per sé molto delicato, figuriamoci quando l’uomo ci mette mano. Taglia oggi e sega domani, non vi è stato il tempo necessario affinché la vegetazione si rigenerasse.
Da tempo L’UNESCO propone Raja Ampat come Patrimonio dell’Umanità. Il governo Indonesiano ha attivato un programma di sensibilizzazione atto a far comprendere alle popolazioni locali il valore della loro terra e delle loro acque.
Persone pratiche e genuine gli abitanti delle isole. “Mangia oggi finché ne hai” questa è la loro filosofia di vita. Non sono abituati a pensare a un futuro troppo lontano.
Ma i tempi cambiano e alle volte in meglio. I papuani della vicina Wai, hanno iniziato a piantare un giovane albero per uno vecchio abbattuto. C’è ancora speranza per la piccola Kri.