Il corno di Caserta è un formaggio peloso
Stamattina a Caserta il sole brillava nel cielo limpido. Era una di quelle giornate invernali nelle quali l’aria è così fresca che sembra tingere di colori vividi le cose che ti stanno intorno, e i raggi ti sembrano un regalo. E pensi a quanto sia bello anche dicembre. Comunque c’è un motivo per il quale sono tornata alla reggia di Caserta (patrimonio dell’umanità per l’UNESCO), e no, non è solo per la sua bellezza: ci son tornata per vedere il corno rosso.
Qualche settimana fa avevo letto con la coda dell’occhio la notizia di questa gigantesca istallazione artistica che aveva diviso i casertani. Nelle foto sul web scorgevo questa ciclopica macchia rossa che si innalza fino al cielo proprio di fronte la celebre reggia. Su Skype avevo chiesto a degli amici della zona “Ma tu l’hai visto il corno? Ma che significa piazzato là davanti?”; mi hanno risposto titubanti, la maggior parte non sembrava così elettrizzata dalla notizia. Per un giovane abitante della terra dei fuochi il rosso che desta l’attenzione è quello dei roghi tossici, e hanno ragione. Ma io sono lontana, sono in Erasmus e la mia attenzione a stare in vacanza dai fumi si è lasciata catturare anche dai più stupidi corni rosso fuoco.
E così, tornata in patria per le vacanze natalizie, sono andata a toccar con mano questo famoso corno.
A me piace l’arte contemporanea; a volte non la capisco e una scatola vuota esposta in un museo o una fetta di formaggio peloso messa sotto una campana di vetro mi sembrano un’esagerata esasperazione del sentire artistico -leggi presa per il culo-. Però per trecento giorni l’anno mi piace anche solo l’idea di poter giovare di un pensiero sensibile di un povero (o ricco) scemo che decide di esternare qualcosa dal suo di dentro utilizzando qualsivoglia mezzo. “Viva l’arte che rompe le tradizioni, viva l’arte che sconvolge e fa pensare, viva l’arte usata per scuotere le coscienze!” pensavo nel far la manovra di parcheggio. Quindi vi assicuro che non sono partita prevenuta, e mi sono incamminata in direzione del corno con tutta la neutralità possibile; poi c’era anche il sole che mi riscaldava i capelli, quindi ero felice.
Ebbene vi dico che, per quanto possa essere scontata questa mia affermazione, quel corno messo lì è proprio un pugno nell’occhio. Sembra un misto fra un cappello di Grande puffo e il pene di un cane malato. Come potete vedere alla vostra sinistra, ho intentato una foto sperando nell’effetto ottico di un simpatico cappello.
Si erge dritto e imponente sul delicato sfondo color crema dello storico palazzo reale e in alto, un po’ prima di finire la sua ascesa al cielo, fa una curva a mo’ di virgola uscita male. Lello Esposito, l’artista che lo ha creato gli ha dato il nome di “Good Luck, Caserta”, immagino rifacendosi alle superstizioni mediterranee del simbolismo fallico.
Ma non era meglio un quadrifoglio?!
A detta del sindaco si tratta di una provocazione positiva (e qui mi chiedo il senso dell’attributo) per innescare “il dibattito e il confronto finora mancati alle esigenze di rilancio della città”; della serie: “nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli” come diceva il caro Oscar Wilde.
Forse nessun casertano possiede l’arguzia necessaria per cogliere il sarcasmo del sindaco. Anche a me piace l’ironia (a volte anche quella facile, è così divertente! Non trovate?) però penso che per denunciare il degrado di quel gioiello di reggia, il sindaco avrebbe potuto inventarsi un modo meno sottile e per assurdo meno imponente di un enorme corno rosso fuoco piantato lì senza troppe spiegazioni. Per 70mila euro avrebbe potuto tappezzare mezza Italia con la sua faccia simpaticamente fotomontata in uno scatto che raffigurasse per davvero il degrado della più grande residenza reale al mondo. E per non rinunciare all’ironia, una simpatica frase d’effetto tipo: “la nostra reggia come una scoreggia”, o qualsiasi slogan pensabile da mente umana in più di cinque minuti di riflessione.
Perché nessuno, guardando il corno lucido, pensa al degrado che si trova lì a pochi metri, una volta varcata la porta. Davvero. In una lista delle cento cose che il corno evoca nel visitatore, il pensiero di denuncia è proprio uno degli ultimi a raggiungere la mente.
È pur vero che l’élite parigina odiò la tour per vent’anni, e che un monumento può passare dall’essere appellato asperges de fer (asparago di ferro) all’essere presentato alla selezione delle nuove sette meraviglie del mondo ma, mi spiace per il corno lucido, non penso il suo destino sarà così felice.