La tartaruga che non poteva volare
Avete mai osservato il nuoto di una tartaruga marina? Sembra volare in un cielo senza fine. Che bello nuotare vicino alla superficie ed ogni tanto tirar fuori la testa per respirare o curiosare. Spesso nuotano in mare aperto, chissà per dove. Magari hanno un navigatore satellitare incorporato nel carapace! Seguire la corrente. Questo sembrano fare. Ci si fiondano dentro e viaggiano lontano. Non toccano mai terra se non per deporre le uova. “Eva tu partorirai con dolore”, così sta scritto da qualche parte. Pare che il concetto sia applicabile a tutte le femmine di questa terra. Pensate quanta fatica recuperare il peso corporeo sottoposto a gravità e, per giunta, arrancare con arti non adatti a camminare sulla terraferma.
Ne ho incontrate tante di tartarughe marine nella mia vita subacquea. Sono stata fortunata. Non sempre sono stati incontri spensierati. Le ho viste con ami incastrati nella pelle e avviluppate in reti vaganti. Non hanno coscienza di liberarsi. Se non possono più nutrirsi, si abbandonano alla morte. Grazie al cielo avvistamenti come questi non mi sono capitati spesso. L’incontro con una tartaruga marina è sempre fonte di gioia. Non sfuggono all’uomo. Ci vuole solo un po’ di tatto. È un gioco di sguardi. Lei guarda te, tu guardi lei. Un po’ come si fa quando, fermi ad un semaforo, ci affianca un’auto uguale alla nostra. La regola di fondo è poco rumore. Noi subacquei ne facciamo troppo quando respiriamo. Se la tartaruga è a suo agio, si fa avvicinare e alle volte è come un elefante in una cristalleria. Soprattutto quando vuole specchiarsi nell’oblò della mia custodia foto sub.
L’ultimo faccia a faccia con una tartaruga è stato in gennaio. Mi trovavo nella Papua Indonesiana, in Raja Ampat sull’isola di Wai. Vagavo tra una foresta di pali sommersi che costituivano le fondamenta del ristorante sull’acqua del resort. Una non quantificabile massa di avannotti cercava rifugio da piccoli tonnetti che volevano cibarsene. Che spettacolo osservare la lotta per la vita senza esserne toccati. Non sei coinvolto. La guardi con raccapricciante avidità. Stai fermo lì e aspetti la mangianza, pronto a scattare. Brutta razza i fotografi subacquei!
Sono immersa in due metri d’acqua. L’amica Annalisa si diverte a fare snorkeling. Mi sta vicino a pelo d’acqua. È una mamma premurosa. La vedo gesticolare e mi grida nello snorkel: “Isa tartaruga“. Scatta l’istinto del predatore foto sub: in un attimo le sono sopra. È un piccolo tartarughino di giovane età, tre o forse quattro anni, chi lo sa! Mi fa avvicinare, ha il carapace incrostato d’alghe. Che strano trovarla nella laguna in acqua così bassa.
La marea montante crea un fiume d’acqua in entrata. Lei, come sa ben fare, ci nuota dentro. Io invece faccio fatica. Maciniamo metri e metri di reef, Annalisa è oramai lontana. Continuo a scattare foto. Lei nuota, si appoggia al fondo, ogni tanto sale in superficie per respirare. Sembra offrirmi sempre il suo lato migliore. Oramai ne sono certa: non mi fa avvicinare dall’altro lato. Non è solo questione di corrente. Il suo pinneggiare simulando il volo riesce male, è scoordinato e poco efficiente. Perdo interesse allo scatto, l’animo del naturalista prevale. Lei è stremata, ha bisogno di riposo. La lascio appoggiare al fondo e mi tengo a distanza per non metterla sotto pressione . Dopo qualche minuto si alza con il musino e cerca di raggiungere la superficie a pochi metri sopra di noi. Io mi alzo in piedi e la vedo: la sua pinna destra è stata amputata poco distante dal carapace. Siamo lì , io e lei, vuole solo respirare, recuperare il fiato, sembra guardarmi con il suo occhio vitreo, chiede compassione, esige pietà. La lascio andare via con commozione, l’occhio vitreo ora è il mio.