Nessuna vita dopo la morte
Imagine there’s no heaven
It’s easy if you try
No hell below us
Above us only sky
Greci e romani antichi li chiamavano Campi Elisi, gli scandinavi Valhalla, i pellerossa vedevano sterminate Praterie e per i cristiani sono Paradiso, Inferno e Purgatorio. Sono i luoghi dove si crede che la vita continui, dopo la morte. Perché l’uomo, da quando è sulla Terra, non ha mai saputo fare i conti con la fine dell’esistenza terrena, mistero per lui grande e insondabile. Sono due le cose dalle quali, pare, non si può fuggire: tasse e morte. Quest’ultima è vissuta con angoscia grave presso tutte le popolazioni, e solo il pensiero che un’esistenza possa spegnersi definitivamente, e senza appello, è stato il pretesto per la nascita di innumerevoli religioni, che alla morte tentano di dare una spiegazione, innestando sulla vita ultraterrena vari e diversissimi sistemi premianti e sanzionatori, di punizione e ricompensa, legati al comportamento tenuto in vita dal caro estinto. I cristiani si beano della possibilità di star vicini al padreterno intonandogli a squarciagola lodi per l’eternità; i musulmani, del par loro, più pragmaticamente scorgono nella disponibilità d’una settantina abbondante di vergini da deflorare la ricompensa per una vita retta; gli induisti pare s’accontentino di vivere altre vite reincarnandosi, e che vadano in visibilio all’idea di poter appartenere, chiusa la parentesi terrena, alla specie bovina.
Ma a conti fatti, che prove abbiamo dell’esistenza dell’aldilà, o di cristi o dei o altri sommi regolatori dell’Universo rispetto ai quali nessuno è mai tornato indietro a confermarci l’esistenza? Che prove abbiamo, noi miseri dispositivi biologici finalizzati alla riproduzione, di avere un’anima? E perché dovremmo negare codesto privilegio ai granchi pelosi, alle zanzare, ai camaleonti e a tutte le altre specie con le quali ci pregiamo di condividere la vita terrena? Non sarà forse la più mastodontica presunzione, il più malcelato orgoglio a convincerci di dover continuare ad esistere anche contro ogni evidenza, anche quando di fatto non esistiamo più e siamo diventati ormai mangime per vermi e concime per la terra? Mettiamola così, visto che un domani non è promesso a nessuno e non possiamo che contare sul presente: a un certo punto della nostra esistenza, giacché nulla pare sia davvero eterno, così come tra non molto m’appresterò a fare col computer, ecco, a un certo punto clic, tutto si spegne, tutto s’interrompe. Il tanto temuto buio sarebbe già qualcosa. Ma invece nulla. Fine dell’esistenza. Nessun premio da riscuotere, nessuna punizione da subire. Nessun inferno e nessun paradiso, come cantato da Lennon, nè tantomeno ingloriose vie di mezzo come i vari limbi e purgatori diversamente teorizzati. E tutto quanto abbiamo fatto sarà stato utile nella misura in cui serva ai posteri, ai nostri figli, ai nostri amici, ai nostri parenti. E, se in vita siamo stati grandi abbastanza, magari anche a tutta l’umanità.
Ma facciamola finita. Non c’è nulla oltre la vita, che si sappia, e il paradosso più grande nel quale si è costretti quotidianamente a imbattersi è constatare quanto numerosissimi individui apparentemente razionali, dediti alla logica e alla pragmatica, scettici finanche all’inverosimile nella vita di tutti i giorni, incapaci di prendere una decisione se non alla prova dei fatti, infine scornino con la lapalissiana evidenza che tutte le religioni e tutte le teorie sull’esistenza di luoghi ultraterreni nei quali ricongiungerci a lieto fine coi nostri cari che nella morte ci hanno preceduto, siano con grande probabilità una disperata invenzione della coscienza umana, terrorizzata all’idea di dover invecchiare e infine morire. Fatevene una ragione. Clic.
Ti sembro stronzo? Scusa, sto provando solo a mettermi in un punto di vista diverso dal mio, magari mi convinco. Non ti sembro stronzo? Spiegami perché nei commenti. E se vuoi approfondire, vai a leggere quaggiù la presentazione di questa mia rubrica.