Quella maledetta domenica
Il 2002 fu un anno strano. Di quelli altalenanti che ti portano a vivere attimi di grande gioia prima di farti, improvvisamente, sprofondare nel baratro. Anche la mia squadra quell’anno fece un po’ come me, anzi decisamente peggio. Era fine aprile, ero innamorata. Un amore sbocciato a primavera, inaspettato, giovane. Lui, in quella domenica di sole, era in campo per il suo esordio in Serie A. Lo guardavo emozionata dalla tribuna, sembrava piccolo e gracile, nonostante sfiorasse il metro e novanta. Quando i tifosi lo videro in campo si preoccuparono. Aveva appena diciotto anni, non avrebbe mai retto alle tensioni di una gara dove ci si giocava la permanenza nella massima serie. E invece in quei lunghissimi novanta minuti, parò tutto o quasi. Volava da un palo all’altro della porta. Usciva deciso. Nelle gambe un’elasticità inaspettata, nella testa i tempi giusti. Era concentratissimo. Tutto il suo impegno però non servì. Gli altri dieci giocarono l’ennesima partita senza dignità, incassarono due goal. I polpacci pesanti, in campo camminavano. Palloni sugli spalti. Tutti speravano solo che finisse in fretta, come quando uno sta per morire e ti auguri solo che accada il prima possibile perché la sofferenza è il peggiore dei mali.
Il triplice fischio finale fu una liberazione. Uscirono tutti tra le imprecazioni. Ma per lui, per il mio giovane portiere, arrivarono solo applausi. A scena aperta. Lunghi e calorosi. Ombre lunghe bagnavano l’erba verde del campo mentre lui alzava le mani al cielo per ringraziare, batteva i guantoni l’uno contro l’altro, passando vicino agli spalti. Marco, chiamiamolo così, divenne l’idolo di quella brutta giornata. Una piccola luce in fondo al tunnel di una stagione da cacciare via. Quella delle maglie nere, del fallimento, di una retrocessione più che certa. Lui, così giovane, aggregato dal gruppo dei ragazzi della primavera, fu per tutti l’icona del giocatore per bene, ancora integro, con dei valori.
Quella sera era arrabbiato. Non faceva altro che ripetermi che un suo difensore cercava in ogni modo di parargli la visuale. Era convinto che l’avesse fatto apposta, che si fosse venduto la partita. Che dire, non aveva prove né certezze ma il comportamento in campo era stato più che eloquente. Batteva i pugni contro il tavolo, nella sua casa vicino allo stadio. I suoi diciotto anni non gli permettevano di accettare quella situazione. Perché vendere una partita tu che guadagni miliardi? Perché non hai lottato per la tua maglia, per quei tifosi che si son fatti piccini ad ogni goal che entrava?
Il fantasma del fallimento aleggiava, come uno spettro del quale non ti puoi liberare. Lui e il suo migliore amico, anche lui un giovincello in prima squadra, accusavano anche il capitano. Non di vendere partite. Ma piuttosto di inveire contro tutti dentro lo spogliatoio, augurandosi il fallimento della società. Sui giornali, invece, il numero sette faceva sapere tutt’altro. Per i tifosi infatti il capitano era il baluardo della squadra, colui che si sarebbe strappato pelle e ossa per salvare quella stagione, onorare la maglia, tenere alto il nome della società. A parole, almeno da quello che mi raccontavano Marco e il suo amico. Dentro, in realtà, remava contro. Un baco insidioso che si faceva spazio lentamente tra i giocatori. Avvelenava il clima. Giostrava tutto lui. Evidentemente era un gran stratega.
Intanto le televisioni parlavano soltanto di Marco. Del piccolo eroe di quella maledetta domenica. Quell’eroe era anche il mio. Mi piaceva perché era intelligente, usava un linguaggio forbito, si muoveva con eleganza. Per il suo stare in disparte, con il computer sulle gambe, mentre gli altri facevano caciara in salotto. Per quell’aria nuova che aveva portato nella mia vita. A volte la respiro ancora, quando arriva aprile.
Tra noi non durò più di una stagione. Succede. Per la squadra niente lieto fine, niente recupero finale. Arrivò la retrocessione. Il fallimento. Marco venne venduto ad una società vicina. Andò a fare il primo portiere. Guadagnava 120 mila euro l’anno. Lasciò in garage la sua piccola Peugeot nera e si comprò una Bmw fiammante. Poi una Porsche. Come fanno tutti, del resto. Negli anni qualche volta ci siamo sentiti, ricordando con affetto la nostra storia.
Poi, una mattina, quello che non avrei mai voluto leggere. Dieci anni dopo. 2012. Lui, quello che aveva battuto i pugni contro il tavolo, che aveva tenuto con onore la maglia sul petto, veniva arrestato. Di notte. La testa bassa. Manette ai polsi. Per me fu un pugno allo stomaco.
Dove cazzo vanno a finire i valori quando ti tuffi in mezzo al successo, al potere, al denaro?
Dov’è finito quel ragazzo? Guardo le immagini e non smetto di chiedermelo. Spero che non sia vero, che si stiano sbagliando.
Marco verrà condannato in primo e secondo grado. Colpevole. Gli concederanno gli arresti domiciliari, poi l’obbligo di firma. Di lui, oggi non so più niente. Quel che so però, per certo, è che le mele marce contagiano anche quelle buone. E’ un processo al quale non ci si sottrae. Lo si subisce. E’ una tenia dalla quale non ti liberi. Come un tumore che ti mangia lentamente il corpo, che t’invade pezzettino per pezzettino. E’ la bruttezza dell’animo umano. Una mela marcia non diventerà mai buona, è vero piuttosto il contrario.
Siamo destinati a marcire. Ce lo insegna ogni giorno anche la politica.