La maledizione dei sensi
Occhio di falco. Naso canino. Udito da pipistrello. Gusto sottile. Dita prensili. I miei carissimi cinque sensi sono stati allenati a dovere, non so come, non so dove, ma è così. Il pilota di caccia, -per fama conosciuto come l’uomo che non ha difetti, zero otturazioni, vista impeccabile, udito fine, e via discorrendo- nonostante ciò, ho evitato di farlo. In compenso, sono anche riuscita, nel corso degli anni a svilupparne un sesto, che non si sa mai. Maledetta quella volta, se non fosse che, in realtà, è capitato e basta. Non me la sono cercata, ma con il passare del tempo ho imparato a riconoscere suoni, odori, sapori e sensazioni senza nemmeno accorgermene. Per quanto riguarda la vista, presumo che la memoria fotografica che mi assilla sia anche legata al fatto che distinguo e riconosco sagome, volti e movimenti senza tanti sforzi.
Che bellezza! qualcuno penserà. Soprattutto chi ha dovuto lottare per migliorare certe lacune. Gli occhiali da vista, l’apparecchio auricolare… Da piccola me li creavo da sola per assomigliare a questa o l’altra amica. Ho persino simulato l’apparecchio dentale perché ero affascinata dal suono delle parole che uscivano articolate dalle labbra dei miei compagni che lo portavano. Prendevo un anellino regalatomi dai nonni e lo incastravo sugli incisivi, che piano piano con il tempo, si sono anche un po’ accavallati. Sì, di stronzate ne ho fatte e ne faccio tante…
Giungiamo al punto. Quando arrivi all’età della ragione, ti rendi conto che poter contare su tutti e cinque i sensi umani non è proprio il massimo. Affiorano i problemi legati a certe caratteristiche che per molti sono privilegi, per me un fastidio enorme. Vederci bene, anzi benissimo, mi ha portata a non poter immaginare il mondo. (Attenzione, non intendo a non poter usare la fantasia! Di quella abbondo, purtroppo, ma in ambito “lavorativo” non va bene…) L’ho capito studiando arte in America, quando la mia docente mi diceva di osservare l’oggetto da rappresentare come fa una persona con la vista sfocata. Alle altre ragazze poteva dire “domani prima della lezione levatevi le lenti, o lasciate gli occhiali nell’armadietto“… io dovevo cercare di chiudere gli occhi e lasciarli in fessura per poter vedere il mondo attorno a me percependone solo le ombre e i contorni mal delineati. Ho odiato il saper vedere tutto pulito, leggere lettere piccolissime e notare ogni minimo dettaglio. Per poter studiare arte dovevo non vedere certe cose per poterne vedere l’insieme, perché prima c’è lo schizzo, poi l’approfondimento in dettaglio. Non mi meraviglio di come il mio cervello ora, per difesa credo, mi abbia donato la capacità di abbassare la vista quando sono in mezzo alla folla. Vedere troppe cose forse non mi gioverebbe, quindi una scarica di adrenalina risale, gli occhi un po’ si appannano e poi riprendo il via.
Non succede la stessa cosa con l’udito. Le mie orecchie non hanno ancora trovato modo per proteggermi dai fastidi esterni. Come i cani riconoscono l’arrivo di determinate persone a chilometri di distanza, così io distinguo suoni e rumori. Succede ogni giorno quando riconosco certi rombi, il sibilo dei freni, il sottile fruscio dello spostamento d’aria di un determinato movimento, e la sensazione di agitazione e nervosismo si aggrappano come una scimmia alle mie spalle. La notte non si dorme perché i vicini di casa pensano bene di guardare la televisione con volume a mille su una scala da uno a cento, di ridere a squarciagola fino alle quattro di mattina, quando poi suona la sveglia dei genitori che devono andare al lavoro, e sei ancora lì, sveglia, a tanto così dal conficcarti una matita all’interno dell’orecchio. I dirimpettai hanno le finestre chiuse, loro forse non sentono. Gli adiacenti hanno le finestre aperte, ma se ascolto bene li sento mentre il loro respiro pesante conferma che stanno dormendo, quindi nessuno fa nulla perché questo cinema all’aperto ogni tanto dia tregua anche al mio mai dolce dormire. Poi si svegliano le bambine della casa accanto, note per il loro pianto costante per attirare l’attenzione di mamme un po’ strane, forse ancora troppo giovani e non attente, e le mie due ore di tregua vengono interrotte.
In dotazione ho ricevuto anche dei mal di testa ereditari, diventati cefalee con aura quando, alle superiori, all’improvviso se ne era andata la vista, e tutte le percezioni erano talmente amplificate da frantumarmi il cervello. Luci, suoni, odori, penetrano come punte di spillo dentro a quella cosa a forma di gheriglio di noce gigante costretto in una scatola cranica, e ci scoppiano dentro come bombe sott’acqua. Il buio, se non sei in una stanza insonorizzata, amplifica tutto. Una volta che gli occhi si sono abituati all’assenza di luce, dove la vista non può più far male, arriva l’immaginazione. L’udito si acuisce ancora di più, la pelle apre bottega e da il via libera ad ogni percezione. Persino il naso si rifiuta di collaborare: ogni qualvolta la posizione si fa distesa mi si chiude, anche se so già come stapparlo con qualche spruzzatina di uno spray apposito. I profumi, si sa, sono ormai un’ossessione da anni. Puoi anche essere il diavolo in persona, ma se hai un buon profumo avrai la mia attenzione. Combattere di continuo per cercare di spiegare come un determinato odore a me appaia più pungente o più amabile di come “odora” agli altri è a volte fastidioso. Quando cerco di dormire, capita di sentire anche di più gli odori nell’aria, nelle lenzuola…
C’è un modo per staccare i sensori? Che so! Disconnettere i fili che vanno dalle terminazioni nervose al cervello? Per il tatto ho ovviato mangiandomi le unghie e suonando la chitarra per creare i calli, ma la cosa simpatica è che basta niente e i calli scompaiono e le unghie ricrescono morbide, così avverto lo stesso tutto ciò che voglio -o non voglio- sotto alle dita. Evviva.
Lo slogan dello yogurt Müller è “fate l’amore con il sapore“… ecco, vado a mangiarne uno così stuzzico anche il palato che, come i suoi fratelli sensi, non mi lascia in pace. Prima o poi anche questa maledizione scomparirà no?