Un vecchio e un ragazzo
Voi capite perché è stata crocifissa?
Era prostituta, lo dicono tutti.
Ieri al bar lo dicevano gli ambulanti
quelli che devono montare le tende
che il mercato deve pur avere le sue chiacchiere
voi capite che due figli son troppi
e nessuno, nessuno deve scriverci sopra
che tutti gli idraulici hanno i loro bisogni
e che non sempre c’è altro da fare
voi capite che al mondo non c’è una messia
nessuna donna ripulirà le nostre condutture.
la discarica dei liquami arriva fino al mare.
di Francesco Tontoli
L’uomo annotò tutto: il numero di targa dell’auto, la durata del rapporto, l’avvenuto pagamento e anche gli insulti e le maledizioni vodoo della donna, in un inglese incomprensibile, pieno di gutturali e di aspirate. Richiuse il taccuino, e rimise in moto.
Aveva accanto a sé un travestito, un ragazzo sui diciannove anni, pagato per star lì a far finta di intrattenersi con lui. Ma quello che pareva interessargli realmente erano le donne nigeriane dall’altra parte della strada, proprio dove cominciava una traversa polverosa della statale, ai lati della pineta.
Le ragazze erano una decina. Mentre alcune si affollavano intorno al fuoco, le altre, accovacciate, pareva stessero facendo delle abluzioni elementari e sbrigative all’aria aperta: si lavavano utilizzando delle bottiglie di plastica che avevano conservato in un angolo, e per asciugarsi usavano dei panni che tenevano appesi alla rete che delimitava l’autostrada. La recinzione era piena di buste di plastica vuote o zeppe di cianfrusaglie. Ognuna aveva il suo sacchetto di plastica che nelle giornate di vento faceva rumore e si muoveva come una bandiera colorata.
Il viottolo era lercio, pieno di spazzatura sparsa e ammucchiata qua e là in piccoli cumuli fumanti.
Le puttane stavano in silenzio intorno ai fuochi, e sembravano animarsi solo all’arrivo di un cliente. Al passaggio della maman si potevano udire i loro gemiti e i loro mugolìi, come proteste silenziose. Sentivano gli sguardi terribili che la donna lanciava intorno a sé , e qualcuna di loro piangeva dal dolore per le trafitture di quegli occhi.
Erano poco più che bambine, tutte infreddolite, tutte indurite dalla strada, diventate cattive e violente fra loro per l’eredità della maman. Con la speranza segreta di riappropriarsi della ciocca di capelli che le avevano lasciato in pegno insieme ad altri frammenti del proprio corpo: le unghie, il sangue mestruale, e tutto il rituale che le aveva rese schiave.
Lo spettacolo sembrava attirare molto l’uomo in tutta la sua desolazione.
Lui parcheggiava la sua auto proprio al lato opposto della strada, quello sempre in ombra, in modo da poter inquadrare l’imboccatura della traversa. E mentre il viado brasiliano che aveva rimorchiato finiva di truccarsi, cospargendosi il viso di crema schiarente, tirando un sospiro di sollievo dalla routine dei rapporti, lui si trastullava riempiendo il suo bloc-notes di fantasie sotto forma di piccole annotazioni: qualche volto disegnato, scarabocchi e spirali concentriche che segnalavano sul foglio la noia e il passaggio del tempo dell’attesa.
Il ragazzo seduto accanto a lui non sembrava affatto sorpreso da quel tipo di perversione.
Era abituato a ben altro e ora sapeva di poter riposare.
L’uomo non aveva mai degnato di uno sguardo il travestito. Pagava bene, il nonno.
Pagava bene, il nonno.
Ce ne fossero stati di clienti come lui disposti a sganciare senza farti far nulla… Tra i due c’era stato un patto stipulato fin dal primo incontro: il ragazzo doveva star zitto, non doveva dire niente in nessuna lingua conosciuta. Muto. E lui stava zitto zitto. Al massimo si truccava o dormicchiava un po’, leggeva qualche rivista trovata in auto, messa magari lì apposta, osservava il traffico passare, che faceva ondeggiare la macchina per lo spostamento d’aria, e nei momenti di pausa in quel silenzio penoso, sentiva scricchiolare la penna stilografica dell’uomo.
“Chissà perché c’è gente che si ostina a scrivere con quel tipo di penna” , si chiedeva. E quando nessuno passava, udiva i rumori del bosco e quelli della pineta retrostante, le voci strozzate delle nigeriane che sembravano lontane, come in un brutto sogno.
L’uomo lo portava in quel luogo, sempre lì, fin dalla prima volta, in territorio nemico, sconfinando di qualche centinaio di metri il limite invisibile che era stato tracciato da chi decideva chi, e dove, si doveva battere. Un confine che non sarebbe durato al massimo più di qualche mese . Dopo di che ci sarebbe stata un’altra guerra tra bande, e altri spostamenti. Era l’unico motivo di preoccupazione per lui.
Dopo aver stabilito le regole del comportamento che doveva tenere, il ragazzo aveva accennato a qualche piccola protesta per tentare di aumentare la sua tariffa, ma l’altro gli aveva risposto aprendo lo sportello della macchina, invitandolo ad accomodarsi fuori. Così lui aveva smesso e finito per rispettare i patti.
Chissà perché temeva quell’uomo. Forse la ragione era che non gli dava nessun appiglio per interpretarlo.
Sembrava non avere debolezze, se non quelle del suo taccuino. Una volta gli aveva gettato uno sguardo, trovandovi solo numeri, orari, segnacci e qualche disegnuccio carino, nemmeno osceno come si sarebbe aspettato.
Ma quanti anni poteva avere con quel viso di cartapecora?
La macchina era sempre linda, non un segno di vita dentro, niente di personale, nemmeno un deodorante, o un arbre magique
La macchina era sempre linda, non un segno di vita dentro, niente di personale, nemmeno un deodorante, o un arbre magique. Sembrava una di quelle a noleggio, ma era sempre la stessa. Lui la riconosceva anche dall’odore di lavanda da quattro soldi che vi stazionava quando ci saliva al buio. L’odore di un dopobarba triste lo definiva. L’uomo lo salutava dicendogli: “Salve”… (“Salve”?, lui pensava…)
Una volta da un amico si era fatto tradurre “Salve” in portoghese, e aveva riso a crepapelle. E allora ogni volta che lo sentiva dire : “Salve”, gli scappava da ridere, ma si tratteneva, e rispondeva “Salve! Saravà!” anche lui.
Non c’era proprio niente da ridere con quello.
Una volta aveva chiesto: “ Ma un po’ di musica in questa macchina?”. E l’altro :
“No”.
Poi il colloquio era finito. “Bello, no?”, pensava.
Dopo qualche settimana aveva capito che era meglio farsi gli affari propri, e se li faceva alla grande. Si limava le unghie, si dava lo smalto, ascoltava la sua musica in cuffia, e addirittura curava anche un po’ l’igiene per quel che poteva.
L’altro lasciava fare. Ma non appena veniva distratto da qualcosa di troppo, che so, il ronzio delle cuffie dell’Ipod , l’odore acre dell’acetone per le unghie, la limetta che gratta, lo schiocco delle labbra dopo il passaggio del rossetto, tirava un gigantesco sospiro da animale spazientito, e il ragazzo capiva i limiti entro cui doveva stare.
A volte il silenzio era proprio insopportabile, e lui lo ingannava immaginando un motivetto , un choro, una bossa, ricordando quel passaggio di samba. Si vedeva sculettare felice insieme ai suoi amici, far ballonzolare le meline dorate che aveva davanti e che adorava.
Amava la vita, ecco tutto, compreso il dolore. Si può amare il dolore, si chiedeva?
Si può amare il dolore, si chiedeva? Uscire dalla sua favela e arrivare in Italia e sognare sempre, tutte le notti il posto dove si è nati, provando piacere nel ricordo, e dolore per la perdita?
Il ricordo di essere stato eletto una notte “Reina do samba” a Bahia appena adolescente, di aver sentito quella donna enorme, col turbante bianco, e la sua mano sulla fronte come un ferro rovente, pronunciare formule in una lingua sconosciuta. Il ricordo di aver sentito quel dolore al ventre, in basso, una fitta interminabile.
Si asciugava le lacrime a pensarci. Aveva 19 anni e già temeva le rughe e controllava ossessivamente allo specchio anche l’ombra di una smagliatura. Avrebbe voluto sempre essere così, perfetto, morire piuttosto che invecchiare, morire in quell’auto.
Il ricordo del vestito luccicante che aveva indossato tutta quella meravigliosa notte, con lo scettro tra le mani e la corona di vetrini colorati ben piantata in testa, un sorriso abbagliante stampato sul viso. Sorridere a tutti sempre. Sorridere della vita e irridere la morte col sogno di una eterna giovinezza che dura solo una notte. Fino a quando Euridice non si volge a Orfeo, e sparisce per riapparire nell’inferno dell’Italia.
Essere stato portato in giro su un carro come un santo. Essere stato un santo in processione. Un santo vivo.
“Perché una volta non mi porti a ballare?” gli disse quella sera, dopo essersi visto per l’ennesima volta, benedire con lo scettro il popolo degli adoratori del samba dal carro in processione.
L’uomo non rispose , e questo diede al ragazzo il coraggio di continuare.
In fondo voleva entrare in contatto con quell’alieno. Anche lui era figlio di Oxum e di Yemanjà, e sentiva di poter lenire la sua tristezza.
Parlò, fu un fiume.
Si udiva il tintinnio delle risate attraverso i vetri della macchina.
Le ragazze nigeriane si voltarono a curiosare. Sorridevano ora, e pronunciarono delle formule augurali di buon auspicio. La macchina silenziosa che avevano visto da un po’ di tempo in quell’angolo sempre alla stessa ora, sembrava finalmente animata, piena della gioia e della vita del ragazzo che raccontava.
Diceva qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Aveva rotto il tabù, infranto il patto. Si sentiva invincibile, e l’uomo non sembrava sorpreso, ma rassegnato.
Non un movimento delle labbra, non un accenno a una reazione. Solo i soliti occhi tristi a guardare il vuoto davanti a sé.
Dopo aver enumerato i ventitré tipi di smalto per unghie che possedeva nelle varie tonalità, dal rosso fuoco al nero seppia, e i vari tipi di mascara, e il modo complicato di farsi i riccioli con i capelli crespi e duri.
Dopo aver parlato fino alla nausea delle smagliature nelle calze provocate dall’irruenza di alcuni clienti esuberanti, delle creme, dei vasetti di cipria, del cibo durante il sesso, delle perversioni cruente e di quelle apparentemente innocue.
Dopo essersi soffermato a descrivere la catapecchia dove aveva vissuto nella favela, bellissima e piena di luce , diceva, e il monolocale buio, con aria condizionata e antenna satellitare che aveva preso in affitto ora, a mille euro al mese, riprese fiato, pregustando la reazione dell’uomo.
Era sicuro che anche lui si sarebbe sciolto. Del resto, se non si poteva fare sesso, allora, tanto valeva la pena essere utili per qualcos’altro, no? Socializzare, ridere, scherzare, accennare a una amicizia.
(…) gli occhi dell’uomo erano sempre più lontani e perduti, percorsi da un’ombra che il ragazzo non era riuscito ad illuminare (…)
Ma il silenzio che seguì alla sua esplosione di esuberanza fu più spesso e appiccicoso di quello che riempie una dichiarazione di abbandono…
Fu come avesse detto “Ti lascio, non so che farmene di te…”
Lo percepì distintamente negli occhi dell’uomo che ora erano sempre più lontani e perduti, percorsi da un’ombra che il ragazzo non era riuscito ad illuminare.
Lui non si scompose, e con un gesto solenne e faticoso, il gesto di una stanchezza antica che non aveva mai visto riposo, accennò a ripartire, dicendo quasi fra sé e sé.
“Peccato, i patti non erano questi”…
L’uomo si fermò al solito posto, gli diede i soldi che il ragazzo infilò subito nella borsetta, poi disse.
“Salve…” con l’aria stanca e rassegnata di sempre.
“Saravà”, rispose il ragazzo deluso.
Sparì nel buio.
Il ragazzo respirò forte come faceva sempre quando scendeva da quella macchina, tirò su col naso sibilando:
“Stronzo bastardo!” e si avvicinò ridendo ai suoi compagni di lavoro roteando la borsetta.
Poi gli venne un sospetto. Aprì la borsetta, tirò fuori i soldi, li spiegò, erano 100 euro come pattuito. Ma in mezzo ad essi c’era un biglietto. Al buio non riuscì a leggervi nulla. Si accorse dopo al tatto che oltre ai soldi e al biglietto c’era anche un grumo appiccicaticcio di capelli. Con un moto di disgusto lo gettò via pronunciando uno scongiuro imparato a Bahia. La cosa non lo sorprese. Era abituato ai pegni d’amore. Dopotutto nella sua borsetta c’era un bazar di feticci.
Ma non lesse il biglietto, decise di farlo quando sarebbe ritornato a casa.
Giorni dopo, nell’ufficio postale, davanti allo sportello per il pagamento delle bollette, tirò fuori quei soldi e si ricordò del biglietto.
Lo lesse in fretta davanti all’impiegata.
C’era scritto: “Mi uccido, ti amo”:
Lo accartocciò e lo ripose nella borsetta disgustato.
Sorrise all’impiegata, e guardandosi lo smalto delle unghie, soddisfatto, disse: “Non ho tagli piccoli, mi dispiace”.