Ci vorrebbe un cane
Non ho mai avuto un cane. Anzi, un cane ce lo avrei anche avuto. Si chiamava Boby ed era il cane dei miei nonni materni. Che abitavano a un centinaio di chilometri da casa mia, in un paese sull’Appennino dove trascorrevo un mesetto in estate, e perciò non ci vedevamo molto. Era il cane di una casa di contadini, quindi poco propenso alla pulizia con detergenti che non fossero saliva, in perenne lotta con pulci e affini, nonché fertile substrato per zecche che mia nonna toglieva con un metodo così astruso da farmi pensare al malocchio, più che ai parassiti. Ci volevamo un gran bene, inutile dirlo. In quel paese non c’era un abitante al di sotto dei quattordici anni, nemmeno in agosto, la televisione funzionava male, il pallone danneggiava fiori e colture, le lucertole erano troppo svelte per un bambino di città. Non avessi avuto Boby, lui che mi seguiva ad ogni passo, che il mattino mi attendeva fuori dalla porta, che quando volevo ridere potevo istigare contro un nemico inesistente, che quando facevo i compiti estivi mi guardava sconsolato, se non ci fosse stato lui, insomma, avrei dovuto crearmi un amico immaginario. L’ultima volta che lo vidi avrò avuto all’incirca diciannove anni. Steso sui sassi di quell’aia che tante volte ne aveva cullato il sonno, Boby rantolava silenziosamente il suo addio alla vita. Forse un boccone troppo amaro, forse una qualche malattia non diagnosticata. Non mi guardava nemmeno ed io, che allora non smettevo mai la mia solida corazza difensiva, non gli concessi una lacrima, ma solamente una lunga carezza e, mentre il treno mi riportava in città, il ricordo di quelle nostre estati solitarie. Il giorno dopo mia nonna mi telefonò e mi disse che Boby era morto. “Ah” dissi. Mi morsi il labbro inferiore e riattaccai.
Ci vorrebbe un cane. Che suona un po’ come ci vorrebbe una ragazza o ci vorrebbe un lavoro, o ancora, ci vorrebbe un amico e una manciata di soldi in più nel portafoglio. Ma è differente. Ci vorrebbe un cane nei pomeriggi inutili, solitari, quando è agosto e fa troppo caldo, oppure in inverno, quando alle quattro fa già buio e il freddo scoraggia anche i più temerari. Ci vorrebbe un cane che seguisse i miei passi, che non mi chiedesse “Ma ascolta un po’: in dove cazzo stiamo andando con sto caldo/freddo?”, che ricalchi le mie orme, che mi dica “Sì, andiamo a casa” e un minuto dopo “Hai ragione, ancora due passi”. Ci vorrebbe un cane quando mi accingo a scrivere un articolo e le parole rimangono tra l’aorta e l’intenzione, le dita si fanno pesanti, la scrittura degli altri pare leggera, incisiva, mentre la mia un coacervo di insulse e pesanti macchinazioni. E lui, che non distingue una C da una E, ti guarda e vorrebbe dirti “Tutto sommato Hemingway è sopravvalutato, niente a che fare con la tua prosa”. Ci vorrebbe un cane quando al lavoro tutto va storto, i capi insistono, persistono, guaiscono e i colleghi gioiscono. E lui, quando ti vede ritornare a casa con il morale a strascico dietro le spalle, ti borbotta “Non ha futuro quell’azienda. Ci fossi almeno tu a dirigere l’ambaradan…” Ci vorrebbe un cane anche quando il lavoro non si trova, quando l’ultima, inutile mail è inviata e la risposta non arriva. E lui ti guarda come a dire “Sicuramente la loro casella di mail è intasata, altrimenti saresti già là.”
Ci vorrebbe un cane, insomma. Uso chiamare tutti i cani che mi annusano le terga Boby. Hanno un bel da fare i padroni a redarguirmi, a ricordarmi che il loro quattro zampe si chiama Louie, e attenti a pronunciare bene il dittongo, o Kingsley, leggere senza G. Io rivedo Boby in tutti loro e approfitto di questa tribuna per spiegare come Boby non sia un nome, ma un concetto di amore e fedeltà. Mi spiego meglio. Un paio di anni fa a Malta vidi un barbone adagiato su una panchina del bus. Era davvero male in arnese: brutto a vedersi, puzzolente, macilento, la pelle raggrinzita da alcool e tabacco trinciato, forse anche un po’ rimbecillito. Davanti a lui un cane bianco di nascita e grigio per ventura, di piccola stazza (non ho conoscenza di razze canine e francamente me ne infischio pure) e piuttosto magro. Un quattrozampe da non inviare. Eppure se dall’autobus numero 12 fosse sceso il Re Sole con parruccone e mantello blu e gli avesse offerto tanti agi e ozi da infartare entro due anni per contratto, quel cane avrebbe detto “No, grazie. Io sto con lui.” Con grande umiliazione di vossignoria che si sarebbe vista preferire un beone da due scudi. Già, non gli sarebbe rimasto che dimenticare il tutto in una qualche bettola di Paceville. Ad ogni modo quel cane non avrebbe potuto che chiamarsi Boby.
Ci vorrebbe un Boby, in conclusione. Possibilmente bastardo, senza pedigree. Magari pulito, ecco. Che poi, quello è un dettaglio minore.