Incompreso e Incompresa
Da piccola, a casa della nonna, salivo le scale e raggiungevo un atrio con una libreria piena di volumi. Uno dopo l’altro devo essermi impossessata di tutti quelli che mi interessavano maggiormente, tranne uno che credo sia ancora lì, con la copertina gialla e la scritta nera o marrone. L’immagine in copertina era un disegno, quasi uno schizzo, di un bimbo con il viso triste: Incompreso, l’opera di Florence Montgomery mi ha odiata fin da piccola. Ancora adesso quando cerco di auto-convincermi di leggerla non ci riesco. Leggo la sinopsi, leggo di un bambino che perde la mamma ed ha un dolore dentro che non riesce ad esprimere, o meglio, gli altri non riescono a capire. Il padre non percepisce il figlio e lui rimane solo con un buco nero che cerca di assorbirlo mentre la maschera della voglia di vivere lo accompagna vitanaturaldurante. Riuscirà a farsi valere, a dimostrare quanto vale, ma io, non voglio leggere come, non lo voglio sapere e ogni volta che salgo in atrio, lo vedo lì, pieno di polvere, a chiamarmi da anni e anni come a dire “Leggimi, Laura, leggimi” e io invece resisto. Ho forse paura di ritrovare in un certo senso un ritratto di me stessa oppure è solo perché non voglio conoscere i dettagli di determinate sensazioni che quando leggo diventano parte di me. Incompreso resta lì. Io resto Incompresa di qua.
Mi chiedono quale facoltà abbia scelto all’Università e dico Lingue. Sono portata per le materie medico scientifiche, mia madre non si è mai fatta problemi a parlarmi di ciò che conosceva e studiava per lavoro, abituandomi a capire termini e definizioni che ancora oggi, quando la sento parlare con le persone, noto come non tutti siano pratici e le chiedano di “parlare potabile“. Eppure ho scelto lingue. In realtà, da giovincella il piano era di studiare bene le lingue per poi andare all’Università in America, ma cause di forza maggiore hanno voluto diversamente. Questo per creare la premessa a ciò che arriverò a raccontare.
Sono passate due settimane dall’intervento di F.A.I con il Dottor Turchetto ed è ora di togliere i punti. Parlando del più e del meno con il medico di turno, si arriva alle solite domande: cosa hai studiato? Cosa fai? Eccetera. Esce come sempre il fatto illustrato poche righe sopra. Stavolta aggiungo un’altra motivazione: non me la sono sentita di studiare per poi, di professione, dover salvare chiunque, anche chi non lo meriterebbe. Sapere di essere un chirurgo che salva ogni vita, anche quella di chi poi torna a casa e magari pesta i figli, o uccide la moglie o comunque non è degno di essere chiamato essere umano, mi roderebbe l’anima. Studio materie mediche per piacere personale, mi informo, continuo comunque a capire e a voler capire determinate dinamiche, scoperte, e via discorrendo, ma ho capito dopo anni di “E se mi iscrivessi a Medicina?” ripetuti ad ogni fine anno accademico, che il motivo sopra riportato è abbastanza. Magari, potrebbe anche solo essere la paura di perdere qualcuno. L’errore umano che vede un paziente morire a causa anche tua… No, non potrei sopportarlo.
Ho visto negli occhi del medico un tocco di delusione: “ma come? Con quest’apparenza da angelo…? Noi giuriamo di prestare soccorso anche al nostro nemico!” – “Lo so benissimo” rispondo io “infatti Ippocrate quella volta poteva risparmiarsi di stilare un giuramento” e la butto sul ridere, ma ormai l’atmosfera è gelida. L’infermiere che ascolta il discorso se ne esce con un “Mamma mia, e dove siamo? Al terzo Reich?” E di nuovo, come succede per altri discorsi, con altri temi, e altre persone, mi sento Incompresa. Non sto dicendo che non ammiro i medici e il loro lavoro, e chi sceglie di salvare vite (tralascio per questa volta chi fa il medico solo per una questione economica) senza curarsi del passato o del futuro dei loro pazienti da un punto di vista morale. Sto dicendo che io, con la mia coscienza impicciona, forse non sarei in grado di prolungare le sofferenze di bambini vittime di abusi salvando la vita del loro aguzzino magari trapiantandogli un organo o aggiustandogliene un altro. Non ne sono sicura. La mia schizofrenia cronica mi porta in alcuni momenti, a credere anche di poterlo fare perché così io ho fatto il mio dovere, ma proprio per non arrivare al punto di doverlo fare per forza, lascio che altre persone che non si fanno prendere dall’ansia della giustizia terrena offrano il loro operato a chi ne ha bisogno. Io, mal che vada, traduco e interpreto quello che sta accadendo…
E così, continuerò a non leggere Incompreso e a sentirmi come lui quando le mie idee e le mie opinioni andranno contro a ciò che è considerato universalmente accettabile da questa società che, a dirla tutta, non ispira il benché minimo briciolo di fiducia. I figli della società sono liberi di esistere esattamente come chi vuole uscirne è libero di andarsene. Io prenderei l’uscita…
Concludo con le parole di Eddie Vedder: Society, you are crazy breed, I hope you’re not lonely, without me…