Un viandante nella nebbia: Il Cinema di Giorgio Diritti
La piccola Martina è giovane, così giovane che molte delle cose che vede non le sembrano vere, e dal giorno in cui il suo fratellino è morto, ha smesso di parlare. Quando però vede un soldato tedesco, freddato dai partigiani dopo essere stato costretto a scavarsi la propria fossa, fa quello che farebbe ogni bambino. Scappa veloce verso casa, verso il piccolo borgo sull’appennino tosco emiliano dove vive la sua famiglia. Corre e non si volta indietro; ad accompagnarla solo il suono di una musica allarmante e la macchina da presa a seguirla da dietro la curvatura delle spalle, mentre si fa strada nella nebbia.
Questa è probabilmente una delle immagini più emozionanti di un piccolo gioiello che la storia del cinema nostrano ci ha offerto negli ultimi anni: L’uomo che verrà di Giorgio Diritti.
Mi è sempre piaciuto paragonare Diritti ad un viandante nella nebbia. I suoi racconti e le sue immagini evocano questo in fondo: un uomo indistinto che cammina nella foschia grigia della campagna emiliana al mattino, tra la penombra lasciata dagli ultimi sprazzi di notte e il sole che si stiracchia lentamente nella sua tana celeste.
Nella sua carriera, il regista bolognese ha dato prova di essere capace di un’idea di cinema molto personale e arguta, andando a esplorare risacche di umanità incompresa, o episodi storici visti sotto luci completamente diverse.
E’ proprio il caso di L’uomo che verrà (2009), dove le vicende legate alla strage di Marzabotto del 1944 vengono esaminate dal punto di vista di una piccola contadina, Martina, e di coloro che vivevano su quelle colline, bloccati e sospesi nella barbarie della guerra civile tra partigiani e nazifascisti. Il film è profondo, e di una crudità perforante, portando lo spettatore a vivere ciascun respiro, occhiata o battito di mani dei personaggi, prima di sentire le raffiche dei fucili sfogarsi senza pietà sulla popolazione inerme, lasciando a Martina il compito di ricominciare e di imparare a crescere abbastanza in fretta da poter essere sia sorella che madre per il fratellino appena nato. Il registro scelto da Diritti, violento, emozionale e obiettivo, crea un perfetto senso di empatia con il pubblico, rendendo questa vicenda del recente passato ancora più realistica e agghiacciante.
Per di più, Diritti non nasconde un gusto spiccato per il cinema dell’uomo sull’uomo, gettando sempre uno sguardo antropologico e sociale sulle vicende che sceglie di narrare, specie quando si sofferma su dettagli, particolari e spaccati di vita sociali e rituali delle comunità umane protagoniste delle sue storie, come in questo caso un piccolo borgo sulle colline emiliane.
Complice di questo risultato è il suo stile, molto più legato al Documentario che al Cinema di Finzione. Diritti è stato per anni montatore e documentarista, ergo conosce bene le logiche visive, strutturali e contenutistiche da utilizzare per raccontare fatti di cronaca, stralci di storia, o semplicemente scandagliare l’essere umano e le sue emozioni in maniera analitica e distaccata, ma pur sempre partecipe.
Questo sposalizio perfetto tra occhio crudo e sempre aperto, gusto per le tradizioni locali, e uno stile di ripresa vivace e attento, è facilmente riconoscibile la prima volta che si visiona la sua opera prima: Il vento fa il suo giro (2005).
Il protagonista è un pastore francese che si trasferisce in un piccolo paese della valle d’Aosta. In mezzo ad uno scenario alpino incontaminato e popolato di personaggi fuori dal tempo (che parlano ancora l’Occitano), mescolato ad una colonna sonora stantia e rarefatta, l’uomo si trova ad affrontare i limiti e i vantaggi di una comunità chiusa e inviolata, che il suo arrivo conduce sulla via dello scontro di civiltà e della paura dello straniero. Il conflitto che si viene a creare è di natura socio-culturale, ed è viscido e sibilante, mai affrontato in modo semplice e diretto, bensì con un ritmo strisciante e sinistro che si sviluppa per tutto il corso della pellicola, creando un’atmosfera sempre più tersa e insostenibile, e divenendo così un teatro perfetto per una narrazione che scava in profondità sul rapporto tra uomo e natura e tra uomo e uomo, specie in contesti isolati e dall’identità culturale molto spiccata.
Il terzo lavoro di Diritti riconferma in tutto il suo stile: dalle riprese documentaristiche, fino al racconto di popoli, tradizioni e al resoconto di uomini e donne costretti a confrontarsi con l’estremo e la violenza sia sociale che naturale. Per farlo, questa volta sceglie di abbandonare l’Italia per raccontarci la storia di , una donna sola e perduta che cerca di ristabilire un equilibrio e di ritrovare la via per la felicità attraversando l’Amazzonia brasiliana. Qui, tra periodi di volontariato a beneficio della popolazione locale, e notti insonni a scrutare il verde saturo della foresta riflettersi sul gran Rio, la donna si riscopre connessa a qualcosa, ritrova uno scopo e un motivo per sorridere e guardare di nuovo il mondo a testa alta.
La pellicola, Un giorno devi andare (2012), si distanzia dalle precedenti in quanto, pur mantenendo lo stesso gusto per gli usi umani e i racconti difficili, si sofferma di più sul singolo individuo, portando tutto ciò che sente, respira, odia, ama in superficie, così che un pubblico lo possa apprezzare e toccare nel profondo.
Il cinema di Diritti è una disamina sull’evoluzione umana personale e collettiva, costretta a confrontarsi con vite aspre e tensioni sociali, un tipo di conflitto che, in qualche modo, intreccia la condizione di noi tutti, ma che allo stesso tempo rimane pervaso da un’aura di foschia, da un ché di indefinito e sconosciuto. Il senso di oblio, di vite spezzate e ricucite o di umanità allo sbaraglio vengono perfettamente tradotti in un’attenta e studiata elaborazione visiva, che parte dalla fotografia e dalle ambientazioni, fino alla meticolosa costruzione registica di ogni singolo fotogramma. Questa scelta di registro emozionale e di immagine è una sintesi perfetta per raccontare queste isole di storia e pulsioni umane, a cui Diritti si è proposto di dare una voce cinematografica.