Piccolo (e non frequente) piacere mattutino
Succede spesso. A volte è il calore accumulato nella stanza, a volte la tensione che le ore di sonno non hanno potuto eliminare. Altre volte è la conseguenza di una nottata difficile, oppure, è solamente un metabolismo che si ribella alle costrizioni che l’uomo moderno gli impone. Non è una cosa piacevole, per lo meno non lo è all’inizio. Lo può essere alla fine, certo, può, anzi, divenire una gioia immensa, di quelle che dal petto si propagano all’organismo intero, come se un fluido paradisiaco, forse ambrosia, fosse versato nello sterno attraverso una bocchetta e da qui si filtrasse in ogni meandro del nostro infinito corpo. Ma, ripeto, solamente se tutto si risolverà come vi descriverò tra poche righe, altrimenti sarà pianto e stridore di sveglie. Succede, avrete ormai capito, che il sonno ci abbandoni, che il sogno prenda contorni netti, reali e che ogni tentativo di uncinare l’immagine onirica prima che se ne voli lontano si risolva in fallimento. Non vale stringere gli occhi, non importa premere la fronte sul cuscino, cercare un angolo fresco con il piede o aderire il più possibile alle lenzuola. Ogni tentativo di trattenere il sonno risulterà un fallimento. I sensi rimarranno intorpiditi, ma la luce filtrante dagli scuri vi bacerà la fronte come a significarvi: sei sveglio.
E fosse solo questo. Prima o poi ci si dovrà pur svegliare, per diamine. Si da il caso, però, che la sveglia lanci il suo trillo di primo mattino e questo comporti una serie di preoccupazioni per la giornata a venire che ognuno saprà elencare per conto suo. Un trillo che vale una sirena, una di quelle che annuncia l’inizio del turno di lavoro, o, nei casi estremi, una di quelle stridenti che decenni or sono annunciavano il grande botto. E allora l’animo si appesantisce e, come non bastasse, un terribile pensiero si fa largo: che non sia
suonata la sveglia, che il nostro corpo, ormai avvezzo a certi orari, ci stia avvisando del patatrac, del telefono che suonerà a breve e del capo infuriato pronto a reclamare il nostro arrivo entro cinque minuti o, diversamente, la nostra testa.
A questo punto è finita. Le lenzuola si fanno pesanti, pungenti, la luce che passa attraverso gli scuri sprigiona più watt dell’atomica di Hiroshima. Un senso di depressione pervade il corpo e lo sprofonda in un baratro oscuro. Non rimane che strisciare un braccio a mo’ di serpe verso il comodino, tastare in ogni dove e infine con un barlume di forza cliccare quell’interruttore che ci darà il responso: due minuti al trillo delle sei e trenta nel migliore dei casi, sei e cinquantuno nel peggiore. Click.
Un solo occhio basta e avanza. Ma un solo occhio non può bastare, no, davvero non è possibile credere all’oracolo made in China.
Eppure la controprova dà lo stesso esito! Si, è proprio così.
In fondo il lavoro non è così pesante e il capo, o beh, di capi se ne sono visti anche di peggio. Ha pure un lato umano, se la vogliamo dire tutta. E poi non è il caso di essere pessimisti, presto vi saranno promozioni, cambi di ruolo e magari, perché no, nuove opportunità lavorative. Queste e tante altre cose, tra cui una mezza idea su come risolvere quattro o cinque conflitti che infestano il pianeta, penserete allora, mentre le lenzuola si faranno nuovamente accoglienti e il cuscino tornerà ad avvolgervi il capo. E la sveglia, nel buio della stanza, segnerà le cinque e un minuto. Un’ora e mezza di sonno mattutino non valgono tutto l’oro del mondo.