Il tempo che verrà
Il meteorologo se ne andava lungo il viale. Meditava. Su se stesso e sulla sua professione, su come in fondo il suo lavoro fosse uno dei pochi che prevedesse il futuro senza che a farlo fosse un ciarlatano. Stregoni, ma con i satelliti. Lui nella sua vita non aveva mai previsto niente, sebbene fosse sempre stato pagato per prevedere. Le sue nuvole personali gli erano sempre sfuggite, si era accorto di loro solo quando avevano scaricato tutta l’acqua che avevano in corpo, più in fretta di un temporale estivo. La miglior battuta che gli veniva in mente, tanto per non commiserarsi, era che lui viveva con la testa oltre nuvole, così che non riusciva a vederle. Un lazzo di poco prezzo, solo per dire che era fatto così e che accettarsi era la prima regola per sopravvivere, anche perché francamente non sapeva come fare diversamente, non è che uno decide di cambiare carattere come si decide di cambiare alimentazione. accettarsi era la prima regola per sopravvivere
Del prevedere il tempo gli piaceva la combinazione di caso e necessità, di legge del caos e di determinismo. Gli piaceva anche sbagliare le previsioni, perché gli faceva percepire che il mondo della natura fosse più libero e meno prevedibile dei suoi abitanti, con una intimità misteriosa che la scienza in fondo aveva appena scalfito. L’unico intoppo erano amici e conoscenti che lo interrogavano a ogni incontro, e così ogni tanto alla domanda: <Come sarà il week end?>, rispondeva <Come Dio vorrà, e comunque portatevi sempre l’ombrello>.
Lui l’ombrello non l’aveva mai portato, lo trovava fastidioso, così strisciava e strusciava lungo i palazzi approfittando dell’<ombrello di San Francesco>, cioè dei tetti spioventi, dove c’erano, altrimenti si bagnava. Anche nella vita non portava mai l’ombrello, si comportava come se non dovesse mai piovere, e invece spesso era grandinato, poi era caduto un nevischio gelido e aveva dovuto attendere un bel po’ prima di poter rivedere un po’ di sole caldo.
Come quando aveva scoperto che sua moglie, la prima, non solo non lo amava ma preferiva un altro, e lui che pensava di vivere in un’ isola tropicale si era trovato in un attimo in una tormenta glaciale. Più di quattro anni erano passati perché si rifacesse una vita, espressione che però non adoperava mai, perché non accettava l’idea implicita che una vicissitudine familiare ti privasse della tua prima vita obbligandoti a rifartene un’altra. non accettava l’idea implicita che una vicissitudine familiare ti privasse della tua prima vita obbligandoti a rifartene un’altra
Giunto a casa la moglie, la seconda, lo accolse tutta pimpante, annunciandogli che era quasi pronto in tavola. <Mi cambio e arrivo> rispose Antonio Biagiotti, che fra l’altro aveva anche fame. Andò in camera, sedendosi sul letto per togliersi le scarpe. Vide un luccichio, sollevò meglio la sopra coperta e vide per terra un oggetto che non gli apparteneva. Lo guardò fisso, senza toccarlo. Poi mise giù la coperta, finì di cambiarsi e andò a tavola. La moglie sorridente gli mise davanti un piatto di spaghetti al tonno, a lui molto graditi, e gli chiese: <Allora che cosa prevedi?>. Antonio prese la forchetta, sollevò la testa e fissò la moglie con occhi inespressivi: <… che piove sul bagnato …>. Il sorriso della moglie scomparve, mentre lui cominciava a arrotolare la prima forchettata vagheggiando un quesito: <Quante volta una vita può essere rifatta? E ne vale la pena?…>