Che fine fanno i miti dello sport?
Che fine fanno i miti dello sport? Cosa resta di loro, nel tempo che passa? E cosa è un mito?
L’occasione dei mondiali di calcio appena conclusi mi fa ritornare, una volta di più, al periodo d’oro della mia adolescenza, quando seguivo il calcio con molta più dedizione, o devozione che dir si voglia. Prescindiamo dalla figuraccia fatta dai nostri, certo è che mi sono trovata alla prese con nome di calciatori quasi sconosciuti. E fino qui va bene: non essendo più tifosa così accanita ci può stare che io non sia aggiornata. Ma il fatto è che anche sui nomi più conosciuti non sento aleggiare l’alone di mito che invece pervadeva certi nomi del passato. In particolare mi viene da pensare che forse è proprio il concetto stesso di mito che ha perso di valore.
Prendiamo qualche esempio del passato.
Quando io cominciavo le superiori si stava concludendo il ciclo agonistico di Gianni Rivera e Sandro Mazzola. Chi non li conosce, ancora oggi? Beh, allora erano già due veri miti del calcio. Talento, correttezza, personalità di spicco, due signori anche nella vita. I giornali miravano a farli apparire rivali, tanto per aumentare l’interesse generale, ma pare che non lo fossero realmente. Se si vuole escludere la sana rivalità sportiva dovuta al fatto di giocare in squadre cugine, il Milan e l’Inter, quelle sì, per tradizione, in eterna battaglia fra loro (e fra tifosi!). La memoria potrà ingannarmi, ma non ricordo sbavature o eccessi nella loro vita privata. Erano miti perché erano bravi.
Lo era anche Dino Zoff, tanto per fare un nome, più vicino ai miei tempi, eterno portiere della Juventus e della Nazionale (di cui diventerà il CT anni dopo). Oggi i commentatori attuali lo definirebbero cerniera: sbarrava la porta ai gol in un modo che forse nessuno ha più saputo eguagliare. E destava autentico stupore il fatto che continuasse a giocare anche da “anziano”, ossia a oltre 40 anni, un’età da casa di ricovero per un calciatore di oltre trent’anni fa. Aveva giusto quell’età quando insieme alla Nazionale vinse la coppa del mondo, nel 1982 in Spagna. L’intera squadra entrò nel mito, quell’anno. Mica pizza e fichi! Come non ricordare i festeggiamenti popolari, che mi costarono una doccia dall’acqua della fontana in piazza?
Poi si aprì una triste parentesi legata al calcio scommesse e… addio! Ma fino a quel momento era stata una favola, i miti del gioco più bello del mondo venivano considerati dei modelli dai bambini e dai loro orgogliosi padri.
A dire il vero, se vogliamo essere pignoli, ricordo che rimasi di stucco quando seppi della relazione di Rivera con Elisabetta Viviani, una brava attrice e cantante (avete presente la sigla del cartone animato Heidi? Ecco, era lei che la cantava). Non so perché, mi sembrava strano, come se si incontrassero due mondi che non potevano incontrarsi: cosa c’entra la canzone, la TV, con il calcio? Vai a sapere che in seguito sarebbe stato non solo normale, ma quasi obbligatorio, che un calciatore facesse coppia con una velina (oggi le showgirl si chiamano così), o una modella o una cantante. Ma questo, a mio parere, non basta a fare di un giocatore una leggenda. Forse la troppa esposizione mediatica, certi stili di vita un po’ sopra le righe illuminano il gossip ma spengono il mito. Inteso come campione.
Nel calcio l’ultimo vero mito di un passato non troppo lontano non può che essere Diego Armando Maradona. In lui genio e sregolatezza si sono sempre presi a braccetto in un modo inscindibile, indelebile. Grande campione, piccolo uomo. Ma gli si perdonava (quasi) tutto.
Non me ne vogliano quelli che sono venuti dopo, da Vieri a Totti a Pirlo, per restare ai nostrani, e a chissà quanti sto dimenticando: a me il loro sembra un mito pallido, ma forse non è tanto colpa loro quanto della velocità con cui i nostri tempi bruciano ogni cosa.
La mitologia sportiva della mia infanzia e poco più, prevedeva nomi indimenticabili anche nelle altre discipline sportive. Nel tennis il vero faro di riferimento era Adriano Panatta per noi, e John McEnroe e Bjorn Borg a livello internazionale. Panatta era anche assai carino da giovane, e questo a un mito non guasta. Con lui l’Italia ha vinto la coppa Davis, tanto per dire. Mentre Borg sembrava davvero imbattibile, un mostro di freddezza e bravura, così marziano che sembrò a dir poco assurda la sua storia con la terrestre e ruspante Loredana Bertè.
Cosa è rimasto del tennis del mito italico? Per lungo tempo poco e niente. Oggi un grande augurio: che due ragazze dalla semplicità disarmante e dalla tenacia feroce, che si chiamano Sara Errani e Roberta Vinci, arrivate a vincere per la prima volta nella storia nel doppio femminile a Wimbledon, entrino anche loro, con grazia e con diritto, nel mito.
Vogliamo parlare di automobilismo? La Formula uno da sempre affascina con il rombo dei suoi motori, che possono sfidare velocità missilistiche senza rischiare multe come i comuni mortali. I miti che l’hanno affollata sono veri.
Tanto per cominciare il primo mito di cui non si può non parlare non è un uomo, ma un nome: la Ferrari. La Rossa. E questo nome dice tutto. Tuttavia stiamo parlando di uomini, e se la Rossa è diventata mito è anche merito dei suoi piloti, la punta di diamante del lavoro di squadra, quelli che rischiano la vita a velocità folli. E non si può negare che la trasfigurazione in mito per molti di loro più che alle vittorie, peraltro entusiasmanti, sia legata ai paurosi incidenti, purtroppo a volte molto gravi. È molto facile che il campione morendo in un modo tanto drammatico quanto spettacolare diventi mito per antonomasia. Alcuni nomi: Niki Lauda, che non è morto in gara, ma l’incidente lo ha quasi bruciato vivo; Clay Regazzoni, rimasto paraplegico e poi morto comunque in auto in autostrada; Ayrton Senna, che non apparteneva alla scuderia Ferrari, ma non conta l’appartenenza a un marchio per entrare nel mito schiantandosi a 300 chilometri all’ora in circuito durante la gara; fino al mito moderno di Michael Schumacher, lui sì mito da vivo e vegeto dopo avere vinto tutto, sconfitto solo da un banale incidente sugli sci che forse gli ha tolto la speranza di una vita normale, ma non la forza delle sue epiche imprese. Forza Schumi!
Il motociclismo ha meno nomi conosciuti, ma parlare di Giacomo Agostini mette d’accordo tutti. Con buona pace di Valentino Rossi, che pure il suo posto nella mitologia moderna se l’è conquistato, ma quanto durerà? In questi tempi veloci e consumistici un astro nasce e muore in poco tempo, e non è detto che non si bruci velocemente nel cuore degli appassionati.
In questi tempi veloci e consumistici un astro nasce e muore in poco tempo, e non è detto che non si bruci velocemente nel cuore degli appassionati.
Cosa peraltro che succede abbastanza spesso nel ciclismo. Da un anno all’altro il campione, il mito da seguire, cambia.
Io ricordo le sfide perenni fra Francesco Moser e Giuseppe Saronni, tanto per non andare troppo indietro nel tempo citando Bartali e Coppi. Le sfide fra Moser e Saronni erano leggendarie, un po’ vinceva uno e un po’ l’altro, e sono questi duelli a essere entrati nel mito. Io li ho visti entrambi da vicino ad un arrivo di tappa e la cosa mi emozionò molto. Come interpretare l’espressione quasi arrabbiata di Saronni, ancora in sella alla sua bicicletta? Non ne capivo molto, nella confusione non ero riuscita a vedere chi era arrivato prima al traguardo, ma era bastato avere i due campioni davanti agli occhi per sentirmi orgogliosa di essere partecipe, così di striscio, della loro mitica scia.
I campioni del ciclismo vanno e vengono, magari compiono imprese pazzesche, ma chi diventa veramente un mito? Chi è più debole e forte allo stesso tempo. Come Marco Pantani. Nessuno è entrato nei cuori della gente come lui. Con le sue umane debolezze, risorto dai tanti infortuni, capace di imprese mirabolanti soprattutto in salita, osannato e poi condannato dai media, schivo e fragile: era il Pirata. E poco importa se è morto per droga dopo una fase di terribile depressione. Il mito sembra destinato a non invecchiare, a morire giovane per restare tale.
Beh, non sempre, certo, come abbiamo visto. Nella boxe per esempio un mito dei tempi andati ma che vive ancora, intendo fisicamente, è quello di Cassius Clay, indimenticabile campione dei pesi massimi. Il mito può condurre un’esistenza agli eccessi, o una vita esemplare. O semplicemente umana. Fece molto discutere la conversione del pugile all’Islam, acquisendo il nome musulmano di Muhammad Ali, come se non fosse un diritto dell’uomo farlo. Eppure quell’uomo si era anche apertamente schierato contro la guerra del Vietnam, contro la discriminazione razziale. Ed era stato un combattente intelligente e vincente. Tirare un pugno alla Cassius Clay era un modo di dire molto in voga fra i ragazzini, come sinonimo di forza e certezza di vittoria. Il mito. Messo KO dal Parkinson, che non gli ha tolto però la dignità da campione.
Miti di ieri e miti di oggi a confronto. La mia personale impressione è che quelli di ieri siano più resistenti allo scorrere del tempo. Quelli di oggi chi lo sa… se non muoiono giovani vengono bruciati da stili di vita discutibili, da soldi a palate, dal primo insuccesso. Poi magari mi sbaglio, non dico di no. Ne riparleremo fra una ventina d’anni. Se i bambini di oggi, uomini domani, ricorderanno qualche nome, ne faranno un ricordo indimenticabile, uno stile di vita, avrò sbagliato.
Di certo non sapranno elencare la formazione della Nazionale di calcio di questi mondiali, che per la verità nulla ha avuto di mitologico. Ma vuoi mettere la formazione della finale dei mondiali del 1982? Zoff, Bergomi, Cabrini, Gentile, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Oriali, Graziani.
Chi se la dimentica.