Ode alle partenze intelligenti
Accidenti a me e al mio dannato vizio di viaggiare di sera. Partenze intelligenti, dicono, e poi ti trovi incastonata sul raccordo a smadonnare sui perché esistenziali o, come nel mio caso, nel mezzo della campagna, quella campagna sarda, acre e selvaggia, dove se sei molto fortunata non prende nemmeno il cellulare.
Ci metterò al massimo un paio d’ore, avevo pensato, parto di sera così non faccio prendere caldo al bambino. Già, perché il bambino è qui con me, in macchina, a guardare il cielo e col ditino teso verso l’alto dice – Mamma, muuna!- che per lui significa luna. Va bene così. Almeno fa fresco e mi godo la brezza che si schianta nell’abitacolo attraverso i finestrini.
L’odore del mirto mi schiaffeggia il naso, devastante, struggente, ancestrale. Sa di aneddoti raccontati attorno al caminetto in inverno o di leggende e storie di creature fantastiche che si materializzano davanti a me piccolina seduta su una sedietta di paglia sull’uscio della porta. Facevamo sempre cerchio nelle calde serate estive, proprio come questa, serate in cui ancora le zanzare tigre vivevano felici nel loro paese. Sbuffo, riprendo in mano il cellulare, ma è come se il segnale fosse assorbito dalle cortecce di sughero che mi osservano come soldati pronti all’assalto.
Quando si dice che la Sardegna è una terra ad habitat disperso non si scherza. Così, giusto per dare qualche informazione concreta a chi volesse impelagarsi in avventure senza senso e azzardare delle partenze intelligenti come la mia. Provo a riavviare il motore sotto lo sguardo curioso di mio figlio. Matteo ha poco più di due anni, ma ha sempre avuto uno sguardo inquisitore, come quello di Aureliano Buendia di ‘Cent’anni di solitudine’.
Giro la chiave. La mia Agila verde kiwi tossisce, sputacchia e infine rantola. Ma perché non hanno fatto una spia della riserva come si deve? Sono le 23:49. Matteo ha dato fondo alla scorta di pazienza, si libera dalle cinture del seggiolino e mi salta in braccio: -Tette!- Gli brillano gli occhi in quel buio denso, d’asfalto e cielo.
Lo attacco e lui succhia vorace. Mi sembra di sentire in lontananza le solite voci “Ancora lo allatti, il latte dopo i sei mesi è acqua!” Poso lo sguardo su mio figlio. Matteo dorme beato, sotto la luce della luna che illumina un rivolo di latte sulla guancina rosa.