L’erasmus è una giduglia. ¡Adeu Barcelona!
Prima di partire un po’ me lo ero immaginato come sarebbe stato l’addio finale. L’addio alle persone, alle strade, ai rumori, ai lampioni, all’Erasmus.
Ma era una di quelle fotografie mentali poco nitide; non conoscevo il colore delle pareti della mia futura stanza spagnola e non avevo mai sentito l’odore di spezie che entra di soppiatto dagli infissi anni ‘80 insieme al brusìo costante del salone di tatuaggi proprio sotto la finestra.
Era più un’immagine di un’idea, che una vera e propria fotografia del momento. Ricordo però di aver pensato a questo gesto di staccare le foto dalle pareti e di fermarmi davanti allo specchio, osservandomi immobile nel caos dei pacchi e delle valigie. E in effetti un po’ c’avevo preso.
C’è qualcosa di sgraziatamente intenso nell’andar via. Ridere e piangere nello stesso tempo; percepire i minuti all’improvviso più pesanti strusciare nella stanza, portarsi dentro e dietro qualcosa, marcando a fuoco quel che di te c’è stato. Non immaginavo che il mio Erasmus sarebbe stato una rivoluzione così dolce. Un fracasso colorato che ancora mi frulla in testa e intorno al corpo, come un’aura di coriandoli vorticosi e sbrilluccicanti.
Un anno di gioventù vissuto all’estero con la febbre di vita e la fame di tutto. Il sentire di essere sbocciati dentro e alle estremità, palpare i petali color radicchio sulla punta dei polpastrelli. E la sensazione di essersi lasciati andare, lanciati in aria senza reti, nel cielo e nell’acqua; sentire di essere stati trafitti dal sole, da un fulmine.
Anche se è comune per molti studenti Erasmus imparare la lingua del posto, non so perché non immaginavo proprio me, dopo un anno, pronunciare la jota come se covasse in me da prima senza che lo sapessi. Da meticolosa quale sono quando si tratta di parole, ero convinta le lingue si dovessero innanzitutto studiare sui libri, e solo dopo acquisirne le parolacce.
Ma alla fine l’ho imparata in strada e non me ne sono accorta. Ed è una sensazione davvero gratificante pensare di aver colto un pezzetto alla volta dalle conversazioni di altri, da un titolo di un giornale e da una frase alla radio, giorno dopo giorno, senza grandi sforzi.
Prima della mia partenza un’amica mi disse: “Preparati. Non importa quante esperienze tu possa già aver accumulato. Non importa quanto tu abbia viaggiato o sperimentato: l’Erasmus sarà il tuo trampolino nel mondo. Vedrai”.
Aveva ragione; l’Erasmus è un debutto nel mondo universitario internazionale, è una forma mentis volta alla continua conoscenza. Della città, della lingua, dell’incognito, di come fanno l’amore gli stranieri, dei semafori più veloci, dell’odore del cielo all’alba, di come camminano i passanti per strada, di come son disposte le aule universitarie, di cosa si mangia a colazione e di che si sfoglia in treno.
Ricordo il primo pianto in aeroporto, uno di quelli che ti annebbia la vista e ti bagna il collo; il vuoto dentro. Dove dormirò stanotte? La sensazione di star facendo una vera cazzata lasciando amici, comodità, spalle d’abbracciare e una vita più semplice che proprio prima della partenza aveva acquisito un incanto mai visto.
Ed è dopo aver fatto il passo più lungo della gamba che la giduglia dell’Erasmus inizia a serpeggiare e arrotolarsi intorno alle caviglie, per poi avvolgerti con spire tenaci che a tratti ti strozzano, a tratti ti si fondono con la pelle. Bando ai cliché, vi confermo senza mezzi termini che l’esperienza Erasmus è stata per me una pulsione di vita strabiliante; non un viaggio, né una lunga vacanza, ma una vera fetta di torta millegiorni farcita di una crema al sapore di voglia di fare.
Ed è difficile ricordarsi di come si era prima, cercando di trovare la traccia del cambiamento nel riflesso allo specchio. C’è qualcosa nel mio essere me stessa che come acqua ha preso la forma del recipiente dove è stata versata in questi mille giorni di vita. Ho preso un po’ la forma delle scalinate di marmo della cattedrale di Santa Eulàlia dove i musicisti improvvisano jam sessions estemporanee nella notte barcellonese, delle spiagge di sabbia finta della turistica Barceloneta e della più autentica Costa Brava. Ho preso un po’ la forma delle panchine delle piazze soleggiate e dei sedili d’auto degli sconosciuti dei BlaBlacar in giro per la Spagna e la Catalunya; una volta, dopo sei ore di viaggio, mi hanno regalato la ricetta autentica della crema catalana della nonna scritta a penna su un pacchetto di gomme da masticare. Le macchie d’erba dei pomeriggi passati distesi sui prati non vanno via a 30 gradi, o forse non andranno via mai più. E con le gambe penzoloni nel vuoto dei miradores e delle terrazze polverose nel cuore del Raval, mi è sembrato che le idee fossero meno incatenate al suolo e ai pregiudizi. Ci deve essere un posto dove volteggiano tutte insieme, leggere si staccano dai capelli delle persone con armonia insieme al vento.
Osservando lo skyline della città dal Búnker del Carmel – un luogo magico, perfetto per gli addii- mi sono ritrovata a pensare, sulle note di una chitarra multi corde, di non poter mettere un punto al mio Erasmus. L’intensità della vita vissuta nel giro di questa esperienza è così pregnante da non poter essere semplicemente accantonata in una scatola di ricordi; è impossibile piangere un addio interno e silenzioso e voltar pagina con leggerezza.
E penso ci sia qualcosa di poeticamente bello nel lasciar la città volandone via, chiudendo le orecchie dalle regole delle hostess e sentendo nello stomaco il battito del decollo che segna il distacco fisico dal suolo. È romantico perfino mostrare quelle lacrime finali e stoiche al passeggero affianco nel sorvolare la città e i tanti luoghi che hai calpestato.
Ho chiamato questa rubrica Bombillas de luz, lampadine, a simboleggiare la miriade di stimoli che mi sono ritrovata ad acchiappare in queste notti e questi giorni da studentessa Erasmus. Bene, oggi il mio Erasmus è finito, e con il petto gonfio di gioia scoppiettante mi aspetto con speranza che queste lampadine continuino in eterno a solleticarmi lo spirito. Ne ho ingoiato tutti gli interruttori.