Quelle feste comandate
Da quando i supermercati possono restare aperti anche durante le feste comandate ho cominciato a chiedermi dove andremo a finire. E anche a ricordare i tempi in cui le feste erano non solo comandate, ma anche rispettate e vissute come tali.
Cominciamo proprio dai supermercati. Che in realtà non esistevano nella forma in cui li conosciamo oggi: si chiamavano generi alimentari. Poi venne il supermarket, ed era già un lusso, ma di solito altro non era che la bottega sotto casa.
Nel supermarket, che appunto non era nemmeno troppo lontano da casa e così la spesa potevi andare a farla a piedi perché tanto ci compravi poche cose per volta, trovavi quasi tutto il necessario, se te lo potevi permettere. Proprio come nella grande distribuzione di oggi, ma tutto era in quantità molto piccole e in spazi molto ridotti. Senza contare che esisteva un rapporto umano con il negoziante che nei centri commerciali di oggi te lo sogni.
Spesso era un negozio a conduzione familiare, serviva il vicinato e il negoziante conosceva tutti. E faceva credito: “Non ti preoccupare, Giovanna, pagherai con calma, quando puoi”.
La chiusura pomeridiana settimanale era rispettata e non ci si sognava di aprire di domenica, Natale, Capodanno o Pasqua. Nessuno lo avrebbe preteso.
Oltre ai negozi di generi alimentari c’erano anche piccole macellerie con carne nostrana, forni che profumavano di pane appena sfornato, fruttivendoli con cui potevi discutere del prezzo delle mele e dove potevi tastare la frutta senza infilarti i guanti. Tutti negozi piccoli, mica iper, mega e tra un po’ giga mercati, in cui trovi un’offerta di prodotti tale che entri per comprare mezzo chilo di pane ed esci con duecento euro di spesa di cose acquistate a tua insaputa, che nemmeno sapevi ti servissero. E, appunto, ormai ci puoi andare anche a Natale: magari nella frenesia dell’ultima ora fra regali e fiocchi e alberi di plastica ti manca ancora un panettone, sai com’è. I piccoli negozi che riescono a sopravvivere a tanta concorrenza sono veramente sempre di meno.
Trovo triste questa frenesia di aprire supermercati sempre più grandi e sempre più aperti, presto anche di notte, dimenticando che anche per inventare il creato intero c’è voluto un giorno di riposo.
Una volta c’erano anche più feste.
Per esempio si festeggiava il quattro novembre come la Festa delle Forze Armate (o dell’Unità Nazionale). Negozi chiusi, caserme aperte. Per i bambini era una festa grande, si poteva entrare nelle caserme, salire sui carri armati. Io l’ho fatto, sono entrata dentro uno di quei cosi, o forse era solo un mezzo cingolato, chi se lo ricorda. Quel che ricordo è che ogni anno facevo visita all’esercito, che a scuola non si andava e a me piacevano così tanto le divise che avrei voluto arruolarmi. Poi però non è stata più festa, in caserma non ci sono più andata e nemmeno mi sono più arruolata, anzi nel frattempo sono diventata pacifista.
È andata meglio alla Festa della Repubblica, il due di giugno. Per tanti anni è stata la festa nazionale per eccellenza, poi di colpo soppressa; che tristezza nel sentire di aver perso la coscienza civile di aver conquistato, noi italiani, col nostro sangue, una repubblica democratica e non una monarchia, o peggio, una tirannia. Secoli di storia patriottica protestarono per un pezzo, tanto che, da non moltissimi anni fa, il secondo giorno di giugno è di nuovo occasione di festeggiamenti. Vabbè, pure ristretti, data la recente crisi. Tuttavia, mentre le Frecce Tricolori sfrecciano allegramente sulla testa del Presidente, la gente va a fare la spesa perché tanto il super-mega-iper che dir si voglia è aperto.
Alcune feste strettamente religiose poi erano occasioni ufficiali di festeggiamenti anche civili.
Per un certo periodo era stata festa a san Giuseppe, il 19 marzo, la festa del papà di tutti i papà. I bambini scrivevano una letterina al genitore e la lasciavano sotto il piatto, e magari recitavano orgogliosi poesie del tipo “San Giuseppe vecchierello cosa porti nel cestello?”. Tutta la famiglia riunita e il papà che non andava al lavoro perché era festa. La mamma non era gelosa, perché tanto la sua festa cadeva sempre di domenica, la seconda di maggio, e così è rimasto da allora. Perché la mamma è sempre la mamma.
L’Epifania ha avuto una strana sorte. Era sempre stato un giorno festivo che, si sa, tutte le feste portava via; poi non lo era stato più e com’era triste questa Befana cui toccava viaggiare su una scopa nei giorni feriali o traslocare su una domenica contigua. Per fortuna dopo un po’ di tempo sul calendario il sei gennaio si è di nuovo dipinto di rosso e tutto è tornato in ordine, compresi cenere e carbone che si trovano a palate nei supermercati. Eppure, per il fatto che i negozi oggi non fanno distinzioni, anche se questo sospirato giorno è rosso, l’Epifania confusa non sa più quali feste deve portarsi via, tanto di festa è uguale che feriale, non è più il colore a fare la differenza. Anzi, la differenza proprio non c’è.
Esistevano poi feste come l’Ascensione, il Corpus Domini, i Santi Pietro e Paolo, tutte oggi soppresse dal punto di vista civile, quello religioso ovviamente persiste, mentre una volta ogni occasione era buona per staccare dai ritmi quotidiani. E infatti, nonostante le difficoltà economiche e sociali, forse allora c’era meno stress e si viveva meglio.
Ora è vero, ci sono rimasti il Primo Maggio, Festa del Lavoro (LAVORO? Evviva!!!), il Ferragosto, in cui per combinazione ricorre l’Assunzione della Madonna in cielo, il Primo Novembre, festa di Ognissanti e l’Otto Dicembre, in cui ancora una volta perfino lo stato civile omaggia la Madonna e la sua Immacolata Concezione. Tanto di cappello per il connubio religione-stato laico che festeggiano le stesse cose. Ma a che pro chiamarle festività e dipingerle di rosso sul calendario, se tutto sembra meno che una festa da festeggiare? Se bisogna andare a lavorare, se i negozi restano aperti, se non sappiamo più cosa vuol dire riposo?
Ehi, lassù. Diglielo anche Tu, che un Creato si fa in sei giorni, ma il settimo si riposa. Qui se lo sono dimenticato.