Senza amore si muore
Lo dico da subito, non parlo dell’amore “romantico”, anche se penso sia ovvio – o almeno per me lo è – il collegamento tra l’amore che possiamo provare per un partner e l’amore più in senso “universale”, cioè quel sentimento di vicinanza nei confronti dell’altro, che può essere il proprio cane così come uno sconosciuto che vediamo in difficoltà e che ci viene voglia di aiutare. Insomma quel qualcosa che ci spinge e ci motiva ad avere a che fare con gli altri!
Quando però dico che senza amore si muore, se è vero che lo faccio con un minimo di provocazione, è vero anche che lo intendo in senso stretto:
Correva l’anno 1940 e Renè Spitz, psicoanalista austriaco, si dedicava all’ampliamento dell’eredità freudiana, che era sì oro, ma nella quale l’altro reale praticamente non esisteva. In sostanza Freud aveva concentrato le sue attenzioni sul mondo intrapsichico degli individui, sulle fantasie, i desideri, le angosce; ma questa “scena” aveva luogo unicamente nel palcoscenico della mente, e l’unico attore era il soggetto, col suo Io sempre impegnato a mediare tra gli impulsi dell’Es, i rimproveri del Super-Io e la realtà esterna. Quelli che furono chiamati “psicologi dell’Io”, tra cui c’era anche Anna Freud, cominciarono a guardare anche “fuori”, interessandosi in particolar modo all’interazione tra madre e bambino e alla sua importanza per lo sviluppo della persona.
Spitz decise di osservare i bambini piccoli che si trovavano negli orfanotrofi perché abbandonati dalle madri, voleva capire cosa succede quando una cosa così naturale, come l’avere una mamma che si prende cura di noi, viene a mancare, e quello che vide fu commovente: a questi bambini venivano date tutte le cure necessarie sul piano fisico (come alimentazione e protezione dal freddo), ma non c’era alcun rapporto significativo e continuativo con un altro individuo, che in normali circostanze sarebbe stata la madre. Come conseguenza i bambini non solo andavano incontro a depressione e isolamento, ma si ammalavano anche fisicamente. Passati tre mesi di “deprivazione affettiva” la coordinazione oculare peggiorava e si sviluppava un ritardo motorio. Entro la fine del secondo anno un terzo di loro moriva.
Avete capito bene, moriva.
Perché? Come può una carenza di affetto arrivare ad avere queste conseguenze? La questione è inquietante, ma proprio per questo affascinante. “Che me ne frega del cibo, io voglio mamma e se mamma non c’è mi lascio morire”. Lo trovo meraviglioso! Quanto ha da dirci tutto questo sulla nostra natura? Non vorrei cadere in un eccesso di romanticismo, oggi sappiamo quanto è importante il gioco di sguardi con la madre, quanto suoi gesti e la sua preoccupazione materna primaria, come la definirebbe Winnicot, mettano in moto anche tutto il sistema degli ormoni tra cui quello della crescita. Ma un altro dato di ricerca non può che farmi ritornare sul versante romantico:
Scimmie, da sempre i migliori maestri sulla nostra natura. Tra il 1958 e il 1965 i coniugi Harlow (siano benedetti tutti gli attaccamentisti della storia) allevarono dei cuccioli di macaco deprivati della madre. In sostanza le scimmie disponevano di due “sostituti materni”: uno era un morbidissimo peluche di stoffa, l’altro era di metallo, solo che quello di metallo aveva il biberon per sfamarle. Quello che i due coniugi osservarono è che le scimmiette passavano la maggior parte del tempo attaccate al pupazzo morbido, rivolgendosi a quello di ferro solo per sfamarsi. Dopo alcune settimane sembravano sempre più impaurite e tristi a causa della mancanza degli sguardi e del contatto fisico; quando divennero grandi ed ebbero dei cuccioli non mettevano in atto alcun comportamento che noi definiremmo materno: non li allattavano, non si preoccupavano se erano in pericolo ed anzi arrivavano a rifiutarli ed attaccarli.
Cos’è questo se non un pericolo per la sopravvivenza stessa della specie? E che significato, quali forme e sfumature può assumere in un essere così complesso come l’uomo? L’intento di questa rubrica era quello di lasciare più domande che risposte, perché credo che la conoscenza non sia vera conoscenza se non è accompagnata dalla curiosità. Spero di aver onorato l’obiettivo!