Il Castello di Spaltenna: poesia d’altri tempi
“Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto…“
Sembra accoglierti così il Castello di Spaltenna, nel vivido e ieratico cuore del Chianti. Trasuda romantico Medioevo ogni sua pietra. Le sue solide mura, invise all’invasore, ricordano quanto accoglienti seppero essere con ogni pellegrino che ne accettava il valore senza tentare di usurparne la maestosità.
Il perenne profumo di storia, tramandato nei secoli, racconta di un tempo lontano, talmente lontano da non essere forse mai esistito. Ed è esattamente questa magia che sottende alla permanenza in questo borgo, una magia tangibile, come tangibile è il suono del silenzio che si propaga a larghe note per tutta la selva circostante; la pace incontaminata che giunge all’orecchio col preciso intento di rapire da tutto ciò che fino a quel momento ci ha preceduto e che, alla partenza, seguirà.
Era l’anno mille che tutto questo nasceva. Un borgo che viveva di se stesso, della sua gente, delle sue terre, delle sue viti, dei suoi signori, della sua fede.
Oltre duemila anni dopo, la solenne grazia di questo anfratto di paradiso resta. Perché gli uomini che si sono succeduti hanno amato la ricchezza di Spaltenna e l’hanno coltivata, consegnando il più alto senso anfitrionico ai loro eredi fino ad arrivare ad oggi. E oggi Spaltenna, il suo Castello, la sua storia di paladini ed eroi, mutua in una modernità che non abbandona la tradizione ma persevera in essa.
Perché quando arrivi in questo luogo ameno, rinfrancante dalle cose del mondo, sferzante nel fresco respiro di calma, inibente il rumore e le corse del quotidiano fruire, non trovi gente dall’impersonale figura che lavora sperando in un sempre maggiore utile; trovi persone determinate, dal carattere certo, che hanno come obiettivo primario te, il tuo benessere, il tuo sorriso; non educati al lavoro come fatica e motivo di guadagno, ma al lavoro come atto nobilitante dell’umana stirpe, come impegno per l’alta realizzazione dell’animo, come esaltazione dello spirito di generosità e abnegazione verso il prossimo.
Ad amplificare il calore permeante dell’accoglienza, la consapevolezza che tutto il personale al quale viene affidata la cura dell’ospite ha una media che non supera i quarant’anni. Giovani uomini e giovani donne con in mano la sacra arte dell’ospitalità – sì preziosa agli occhi degli dei! – a tutti i livelli, quella fisica, quella spirituale.
Segno che le generazioni presenti non sono figlie del signore dell’oblìo, ma se guidate da maestri di carisma possono esser a loro volta maestre, ognuna nel proprio ambito, suffragate dal vigore tipico di un cuore giovane.
E giovane è Alessandro, il direttore, attento alle necessità di tutti, proteso, con costante solerzia e certosina cura, a render indimenticabile il soggiorno di quanti abbiano fatto cadere su di loro la propria scelta di ristoro. Al suo fianco un luogotenente di valore e tempra, Tiziano, cicerone e conoscitore di ogni leggenda, di ogni figura storica, di ogni infinitesimale intercapedine di un borgo lontano da lui per epoca, ma pienamente suo nella passione, che di stille di luce gli illumina il volto al racconto di ciò che un tempo fu, abilmente trasformato in quello che oggi è. In lui l’orgoglio di chi possiede la conoscenza e se ne fa generoso latore.
Cosa creare all’interno di un borgo bucolico, dall’atmosfera surreale, che prende forma da limpide pennellate di cielo, come fosse un’isola a cui anche l’onda risparmia il suo impeto? Un centro benessere, come se non ci fosse limite alla beatitudine.
Sagge mani che distendono i muscoli riposizionandoli laddove l’Eden li aveva previsti; la sauna, il bagno turco, la palestra; e poi la forza salubre e ristoratrice dell’acqua: la piscina riscaldata, l’idromassaggio, la tonicità che viene dal ghiaccio; e la sala relax con a lato gli aromi morbidi e incisivi degli infusi di erbe che pregnano olfatto e gusto. Il tutto chiuso in un alveo pieno della luce della natura, mai esclusa da nessuna attività: ampie vetrate a concedere accesso allo screziato verde e alla serenità che trae origine dalla speranza che oltre quell’orizzonte, seppur lontano, il bello possa continuare.
Giovani uomini e giovani donne con in mano la sacra arte dell’ospitalità – sì preziosa agli occhi degli dei! – a tutti i livelli, quella fisica, quella spirituale.
E con una oramai complice naturalezza, il prosieguo della celebrazione dell’umanità piena si compie con l’ingresso nella sala dove l’originario istinto del mantenimento della specie diventa una celeste danza di odori e sapori, di oriente e occidente, di autoctono e di importato: contaminazioni tipiche di culture variegate che danno l’abbrivio a idee brillanti.
Un tavolo elegantemente apparecchiato per due, lo spazio condiviso con chi come noi ha deciso che il compimento dell’uomo deve passare anche per il piacere di certe esperienze.
Lì ci aspettava il maître, Andrea, un giovane uomo con intendimenti d’altri tempi nella sua competenza, nella sua smisurata passione, nella sua concezione di disciplina non come vincolo ma come possibilità di grandezza.
Elegante e composto, sorridente e coinvolgente. E generoso. Ci ha fatto dono di sé, della sua storia, del suo percorso, del suo vigore di ragazzo, l’impeto giovane, l’intelligenza matura.
Ascoltarlo mentre ci decantava i preziosi vini delle loro pregiate cantine, e i cibi che si alternavano sulla nostra tavola in un impeccabile servizio, poneva in essere quello che di lì a poco ci avrebbe raccontato lo chef, Fabrizio, l’altrettanto giovane uomo in forza al Castello: “la sinfonia che inizia con lo studio accorto e meticoloso dei piatti, e che procede con la preparazione, la cottura e l’impiattamento, una volta fuori dalla cucina, deve continuare…“.
Come ogni valoroso condottiero di cui si ha memoria, anche Fabrizio, in testa alla sua guarnigione, che erudisce e tutela, affronta con responsabilità qualsiasi traversia assumendosene il carico, quasi sentisse l’influsso mistico che viene da certe atmosfere pregne di storici eroismi, affinché queste non rechino disagio agli ospiti, né turbamento ad una squadra che vede nella sua guida una direzione da percorrere, non un’imposizione a cui sottostare.
Ad ogni piatto un vino differente, che si sposasse con i temi alimentari elaborati per noi. Congiunzioni di gusti perché i sensi si esaltassero col sapiente accostamento di sapori e idee, gli uni e le altre fuse in un unico concetto di senso universale ma senza che nessun ingrediente perdesse la sua personalità.
Armonizzare le dure meccaniche degli ingranaggi delle formalità non è cosa ardua quando la coincidenza di intendimenti governa gli uomini. A fine serata dunque, a sala vuota, con gli accordi di Vivaldi a far da nobile padrino, il convivio divenne assoluto.
L’invito a chef e maître di sedere al nostro tavolo per la condivisione del nettare frutto della terra e della fatica dell’uomo, e che fa dell’uomo dignità benedetta dal Cielo, fu accolto con slancio e, in alto i calici, l’augurio di reciproca salute e prosperità si propagò per la sala e per il Castello, e per il bosco circostante, e, in trasmissione perenne, in ogni arbusto che per due magici giorni ha filtrato per noi l’ossigeno concedendoci la vita.
E se è vero che gli uomini che scendono nell’arena in prima persona fanno la storia, è altrettanto vero che la luce della lungimiranza illumina delle menti che non hanno l’arte ma sanno individuarla.
E come si deve non solo a Michelangelo, ma anche al mecenate Papa Giulio II l’ineguagliabile grandezza e bellezza della Cappella sistina, così non si può non render tributo ai proprietari del Castello di Spaltenna che, illuminati dalla sapienza degli uomini giusti, hanno consentito ai talenti scolpiti in ognuno dei loro collaboratori di esprimersi liberamente, senza vincoli, senza limitazioni, facendo del Castello una realtà possibile, altrimenti esclusivamente appannagio di oniriche mete.
Info su: www.spaltenna.it e www.fabrizioborraccino.com