Perchè proprio io?
Uno pensa: “Le strade sono piene di pericoli, meglio prenderne una popolata per tornare a casa, almeno se succede qualcosa è più facile che qualcuno mi aiuti”.
Forse lo pensava anche Kitty Genovese, prima di essere assassinata in un sobborgo newyorkese una notte negli anni ’60. A niente servirono le grida d’aiuto, che pure furono ascoltate da diverse persone; alcuni addirittura videro la scena, dalle finestre dei palazzi circostanti, ma nessuno di loro prestò lei aiuto né tanto meno chiamò la polizia. Dopo un momento di condivisibile stupore e un po’ di tristezza per la fine di Kitty cerchiamo di capire il perché di tutto questo:
“Vabbè, è New York, sai che casino tra taxi, camion della spazzatura e rumori vari di una città così grande”.
Questo è sicuramente un fattore da tenere in conto, non tanto per il fatto di non sentire le urla – che qualcuno ha comunque sentito – quanto per il fatto che in una città così caotica non dev’essere facilissimo distinguere tra una situazione di reale pericolo e, per esempio, un litigio tra fidanzati (a meno che non ci si trovi proprio lì davanti). Difatti secondo Latanè e Darley, due tizi che in seguito a questa storia si fecero alcune domande, prendere una decisione in merito a intervenire in una situazione di pericolo è un processo che attraversa varie fasi, di cui se la prima è, logicamente, “avvertire l’evento” , la seconda è interpretare l’evento come un’emergenza.
Qui può avvenire qualcosa di paradossale, e cioè che la presenza di altri testimoni riduca la percezione di pericolosità della situazione. Ma a pensarci bene non è poi così assurda come cosa, riflettete: cosa fate se vedete decine di persone correre e urlare “Al fuoco!”? Non so voi, ma io corro, e non c’è bisogno che mi portate a vedere con i miei occhi l’università che brucia (perdonatemi, sotto esame certe fantasie si fanno sentire); questo perché quando la situazione non ci è chiara usiamo gli altri come fonte di informazione, guardiamo le loro reazioni per interpretare quello che sta accadendo. Se loro scappano urlando state sicuri che mi fido. Ma che succede se neanche loro hanno abbastanza informazioni? Un’emergenza del resto è spesso un evento improvviso e soprattutto confuso. Beh, in sostanza succede che si guardano tutti in faccia, ognuno cerca di capire attraverso gli altri cosa sta accadendo ma nessuno capisce niente, di conseguenza nessuno agisce (o meglio ci mette più tempo).
Questo però non basta a spiegare il fatto che, alla fine, nessuno abbia chiamato la polizia. Il terzo step dello schema di Latanè e Darley, “assumersi la responsabilità”, farà definitivamente luce su questo punto. Sì, perché dopo che hai percepito che una persona è in pericolo devi anche percepire che è tua responsabilità aiutarla, ciò implica sia una messa alla prova di se stessi – a cui consegue un’esposizione al fallimento – ma soprattutto talvolta implica un reale pericolo per la propria persona. Insomma, meglio che lo faccia qualcun altro, no? Del resto tutti hanno sentito le urla, perché proprio io devo intervenire? Alcuni esperimenti hanno dimostrato che, effettivamente, più persone ci sono e meno responsabilità personale sentirà ognuna di quelle persone. Un po’ come se qualcuno ci sviene davanti quando siamo soli con lui o quando ci sono anche tante altre persone. Nel primo caso il nostro intervento sarà sicuramente pronto e rapido, nel secondo non voglio dire che siamo brutte persone e non facciamo niente, ma di sicuro avvertiremo meno angoscia, meno pressione, meno responsabilità.
Insomma, paradossalmente Kitty Genovese, la cui storia almeno è diventata patrimonio della psicologia, si sarebbe potuta salvare dalle grinfie del suo assassino se solo ci fossero state meno persone a sentire le sue grida. Ma forse, su quanto il “perchè proprio io?” abbia rovinato il mondo, potreste farmi scuola.