Guerra di civiltà
Piove, e quando piove anche i parcheggi prendono l’umido e si contraggono, sono di meno. Non si trova un buco, nemmeno in ostentato divieto. Sono già quattro i giri intorno a due isolati, niente da fare. In lontananza però un tizio, giornale sulla testa, mette una mano in tasca e si dirige verso un’auto. Accelerazione e in pochi attimi la duemilacinque affianca la fila di auto, poco più avanti di quella che deve uscire. Ma quest’ultima, dopo avere messo diligentemente la freccia, segnala al fortunato in attesa che non ce la fa a uscire se l’altro non va un po’ più avanti.
Mario Lanfranchi, artigiano di prestigio, è un po’ in ansia, quando in una serata così si trova un parcheggio non si sta tranquilli finché non lo si è occupato, ma capisce il problema del suo benefattore, mette la prima e fa un altro paio di metri. Finalmente l’auto ha lo spazio adatto, si allarga, passa accanto al Lanfranchi e si allontana. Lanfranchi innesta la retromarcia e si avvia al meritato parcheggio.
Una utilitaria sbucata dal nulla della pioggia entra di muso nel parcheggio, certo non a filo di marciapiede ma fa lo stesso. Il gabbato sente le vene delle tempie gonfiarsi e battere pericolosamente. Va ancora in retromarcia e si affianca all’usurpatore. “Guardi – tiene il tono cortese – Ero in attesa io“. “Guardi lei, questo è un parcheggio, non è che uno ci può mettere il cappello“. “Lei è un arrogante cafone” – sale la temperatura del Lanfranchi – “stavo parcheggiando io e lei lo sa bene“. “L’unica cosa che so è che il posto era libero e l’ ho occupato io. E ora mi scusi ma sono stufo di questa discussione“.
Lanfranchi scende dall’auto, vuole avere un tono minaccioso, ma quell’altro, nonostante il poco spazio lasciato dal gabbato furibondo, scende anche lui, ma non per confrontarsi, ma per allontanarsi per i fatti suoi. Alle mani non si arriva, ma l’usurpatore si allontana con una coda di improperi dal repertorio classico della controversia automobilistica. La gioia di avere sottratto un posto in una situazione del genere compensa qualsiasi turpiloquio, incluso quello verso la propria cerchia familiare.
Lanfranchi prova il sentimento più insopportabile, l’impotenza. Cioè la certezza assoluta delle proprie ragioni coniugata all’impossibilità di farle valere, anzi con la certezza che qualsiasi forma di esercizio dei propri diritti sarebbe bollata come arbitraria e si trasformerebbe perfino in reato. Rimonta in auto con la pioggerellina che gli è entrata nel collo e i pochi capelli tutti inzuppati. Ricomincia il calvario del circuito, pensa furibondo a quelli che lo stanno aspettando in azienda, clienti importanti e non sono tempi per trattare male qualsiasi cliente, figuriamoci quelli che spendono. Telefona alla segretaria perché lo scusi e mentre richiude il telefonino vede un angolo libero: ci si avventa, qui non c’è da far manovra. E’ in divieto ma certo i vigili non andranno proprio lì, a quell’ora, con la pioggia in semiperiferia.
Va di passo svelto verso l’ufficio e a un paio di decine di metri riconosce l’auto dell’usurpatore. Mette la mano in tasca e prende la chiave di casa. Continua veloce, il braccio è teso all’ingiù, e passando accanto all’auto incriminata si sente un lieve stridio lungo quanto l’auto. “L’incivile ha avuto quello che si meritava. Senza civiltà dove si va a finire?“. E guadagna l’ingresso dell’azienda.