Italia: Repubblica di banane, melanzane ripiene e carogne
A parlar di pallone, argomento assai caro agli italiani al punto che d’estate, quando non ci sono né campionato né altre competizioni, il livello di conversazione e condivisione sociale precipita in modo irrecuperabile, mi sovviene una singolare scena che fotografa in toto la mia partecipazione emotiva a questo sport che ha, nientemeno, molti più seguaci di quanti siano stati gli anni di presidenza di Napolitano. Ci si trovava, io e mio padre, senza un chiaro e ben precisato appuntamento, davanti al televisore nel salotto dell’insardevole magione in una sobria, almeno fino ad allora, domenica pomeriggio.
Esordisco innanzitutto dicendo che io sono di tradizione interista (perché anche il tifo, come le aziende e la politica, è a successione dinastica) e dunque, in quanto tale, ho tifato per i nerazzurri finché non ho scoperto che, in realtà, i nerazzurri non eravamo noi. E l’ho scoperto, ahimè, quando era ormai un po’ troppo tardi.
È andata così: i bianchi segnano e mio padre (interista al punto che la sua fede calcistica è talmente ‘fede’ che giura su Peppino Prisco) esulta in un modo talmente scomposto e smodato che quasi precipita dalla sedia. Io, con i brividi di orrore alla schiena e la bocca spalancata a bacinella, inorridisco, basisco e trasecolo, e delusa da quello smisurato slancio penso: “Perché s’è fatto dell’Atalanta? E perché in modo così spregiudicato? Forse perché mia sorella vive a Bergamo? Dopo una vita spesa ad insegnarmi che bisogna essere interisti non fosse altro che per senso d’onestà e di catartica necessità di sofferenza…”. Mentre lo guardo con sospetto cercando di capire quale parte di suo vissuto mi sono persa, mettendo a ragionamento motivi su motivi, finalmente i nerazzurri pareggiano ed io, da interista verace, faccio un salto felino dallo sgabello come se si fosse azionato improvvisamente il sedile eiettabile, e con la sola onda d’urto provocata dall’urlo, ne viene un tornado talmente violento che fa piroettare in modo vorticoso l’insardevole madre la quale, ignara e incosciente (incosciente soprattutto perché quando c’è il calcio in tivvù il campo deve essere lasciato sgombro per qualsivoglia improvviso e repentino scatto, frutto di contrazioni muscolari varie non catalogabili secondo logica), stava passando per di là con in mano l’impasto delle melanzane ripiene.
Fortunatamente nel rocambolesco tentativo d’atterraggio riesco a salvare l’augusta genitrice dall’abbattimento al suolo e, ancora più fortunatamente, il salvifico impasto riesce a salvare mio padre dall’accusa di tentato omicidio, perché gli si spalma addosso impedendogli di far di me la carne trita che a quell’impasto mancava. Avrà pensato, puntandomi guardingo e circospetto: “Perché s’è fatta dell’Atalanta? E perché in modo così spregiudicato? Forse perché sua sorella vive a Bergamo? Dopo una vita spesa ad insegnarle che bisogna essere interisti non fosse altro che per senso d’onestà e di catartica necessità di sofferenza…”.
Fatto sta che alla fine, grazie alle lungaggini burocratiche che servono per diseredare un figlio, riusciamo a chiarire l’equivoco e quindi a restare ancora parenti e tifare tutti per l’Inter in maglia bianca (evidentemente, visto il tempaccio di quei giorni, le maglie nerazzurre usate la domenica precedente non si saranno asciugate). Cioè non proprio tutti tutti a tifare l’Inter, ché mia madre, bando alla burocrazia, vuoi per lo spavento, vuoi per la perdita delle melanzane, mise in moto, in uno strettissimo vernacolo arcaico pre-colombiano, un’invettiva tale che a confronto Sgarbi in tenuta antisommossa sarebbe stato il giusto volto per la reclam del Coccolino concentrato confezione risparmio. E ci guardò con un disprezzo tale che a confronto Sgarbi modalità “capra-on” poteva ambire al premio Nobel nella categoria “Con la dolcezza si ottiene tutto”.
incosciente soprattutto perché quando c’è il calcio in tivvù il campo deve essere lasciato sgombro
E ci vilipese con una violenza verbale tale che a confronto Sgarbi l’irascibile poteva candidarsi come testimonial della rivoluzione della tenerezza in ex aequo con Genny ‘a Carogna (ve lo ricordate?). Tutto questo solo a sottolineare che il calcio è diventato un sport che fomenta la violenza e non soltanto negli stadi. Che poi, a proposito di quel garbato ed elegante, e molto a modino, gentiluomo di Genny ‘a Carogna (carogna: sostantivo dal controverso significato, ché per i detrattori è un impropero e per i sostenitori è una carica istituzionale) c’è da dire che costui, da libero pensatore e neofilosofo della comunicazione e dell’intermediazione sociale, ci insegnò il determinante concetto (neanche troppo articolato e quindi semplice e fruibile dai più) che se sei, chessò, Presidente del Consiglio, o del Senato, o della Figgiccì, o di qualche squadra di calcio o anche, magari, questore di Roma, e quindi hai una bitumiera intera, con annesso rimorchio, di titoli e fregi, non vuol certo dire che sei uomo abile a gestir le masse. Abile è invece chi si sporca le mani, ha il giusto carisma del trascinatore, il fascino dell’erudito, indossa con classe la giusta tiscert, scende in campo e fa da pioniere al suo popolo.
Faccio bene io a tifare l’Inter, sia per quella storia della catartica necessità di sofferenza, sia perché se tifi l’Inter problemi di gestione delle masse per le finali di coppa ne hai uno ogni vent’anni. Se tutto va bene.