Bambola Fanella, sassi e altri giochi (economici)
Quando vedo bambini molto piccoli giocare da campioni con i videogiochi o con i tablet e usare i cellulari dei genitori come se fossero giocattoli e con una padronanza che gli adulti si sognano, mio malgrado rabbrividisco. Certo, viviamo in un’epoca che è futuro, rispetto a quando ero piccola io. Ma mica sto parlando di preistoria, solo di qualche lustro fa.
Era il tempo delle bambole, lo è sempre stato per le bambine. Ma io ero una bambina che le bambole le amava poco. Ne ricordo un paio in modo particolare, di cui una era proprio famosa. Si chiamava Fanella, aveva i capelli neri, lunghi e piastrati come si usano oggi e portava occhiali dalla montatura nera. Ma non è che ci giocassi in senso classico. La Fanella cantava. O meglio, sulla sua schiena era incastonato un minuscolo giradischi, ci mettevi i suoi dischetti e la sentivi cantare. Era questo che adoravo di lei, le canzoncine.
“Questo è l’occhio bello/questo è suo fratello/ questa è la chiesina/questo è il campanello…”. Tanto per dire. Filastrocche popolari, divertenti, che ancora ricordo. Il mio primo juke box, tutto sommato.
La Fanella è ancora con me, con gli occhiali incerottati e un po’ spettinata. Ma i dischetti non ci sono più. Peccato.
Però in fondo preferivo altri giochi. Bastava veramente poco per divertirsi.
Per esempio una palla di plastica legata a una corda con un anello all’altro capo da far passare alla caviglia. Niente in tutto. Però quella palla doveva girare in tondo con un movimento del piede e tu dovevi saltare ogni volta che passava. Ottimo metodo per restare in forma. Non che ce ne fosse bisogno. L’obesità non era ancora una malattia sociale, piuttosto una sporadica disfunzione individuale. Certo oggi per molti avrebbe senso saltellare così.
Altro modo per saltellare era alla corda. Sì, quella che usano anche alcuni sportivi, come i pugili, per allenarsi. Potevi saltare singolarmente, o in coppia, o potevi darla da girare ad altri due bambini e sbizzarrirti con i salti.
Ho il fiatone solo a pensarci. E a dire il vero forse il fiatone lo avevo anche allora. Mai avuto resistenza fisica, nemmeno da bambina.
Un pochino meglio, restando in tema di salti, andava con la campana. Gioco universale, ma con varie versioni da nord a sud. Un disegno per terra, con il gesso, a raffigurare alcuni rettangoli con un punteggio. Si gettava un sasso nei rettangoli e si saltellava su una gamba sola (una variante prevedeva anche l’appoggio momentaneo di entrambi i piedi) per recuperarlo. Divertente. Riuscivo a cavarmela discretamente perfino io.
I sassi avevano, nella loro semplicità, varie possibilità di gioco. Per esempio, un gioco che credevo fosse solo pugliese, perché ne conoscevo il nome in dialetto (i tuddhri), in realtà era in vigore anche in veneto, col nome di “sasset”. Cinque sassi, da lanciare in aria in vari modi recuperando i rimanenti per terra con una mano sola ma formando varie figure. Difficile a spiegarsi, ma anche a farsi. I livelli superiori erano per veri giocolieri.
Invece un gioco da contorsionista era quello con l’elastico. Non so se abbia un nome, so che anche questo era diffuso da nord e sud e forse qualcuno lo usa ancora per far divertire i bambini. Se non è un elastico basta anche uno spago qualsiasi, purché abbastanza lungo e chiuso a cerchio. Lo si faceva passare sui palmi della mani e le dita di una mano andavano a incrociare lo spago sull’altra tendendolo; ne nascevano nuove figure geometriche a loro volta intrecciabili. Difficilissimo. Mai andata oltre le prime, io.
Ma quello di non oltrepassare i primi livelli sembra essere un mio limite costante. Si vede che ho una manualità, o un quoziente intellettivo, medio bassi. Quando comparvero i primi videogiochi ne ebbi la conferma. Il primissimo è stato una specie di tennis da muro giocato dentro il monitor. La racchetta era solo un rettangolino bianco e spostandola qua e là bisognava colpire con la palla ed eliminare una serie di mattoncini che venivano giù una volta colpiti, mentre la palla acquistava sempre più velocità. Facile no? Ma la mia imbranataggine con il tennis vero non è che si modificasse solo perché questo lo giocavo dentro uno schermo. Restava tale e quale.
Stessa cosa accadde con il Packman e con il Supermario. Negata.
Dei successivi meglio nemmeno accennare. Ho rinunciato perfino a guardarli.
Torniamo ai giochi economici.
Prima dei videogiochi, che forse stimoleranno i riflessi (tranne i miei), ma a mio parere uccidono la fantasia di chi li utilizza, i bambini storie e battaglie se le inventavano da soli.
Io collezionavo soldatini, alti un paio di centimetri, oppure anche più grandi. Potevano essere cowboy e indiani, con tanto di Fort Apache, o militari dell’Arma e, credo, anche di altre forze armate, ma non ricordo benissimo quali. Li si disponeva secondo la battaglia che si aveva in mente ed ecco fatto, la Storia cominciava.
Se poi si voleva battagliare sul serio, senza prendersi a cuscinate o a botte, che si diceva fosse per gioco ma faceva male, allora bastava giocare a carte fra fratelli
Se poi si voleva battagliare sul serio, senza prendersi a cuscinate o a botte, che si diceva fosse per gioco ma faceva male, allora bastava giocare a carte fra fratelli: scopa, rubamazzetto, asso pigliatutto, ma anche briscola e tressette. Nemmeno nelle osterie si accapigliavano così quando si perdeva o si scopriva che qualcuno barava (ebbene sì, altrimenti era troppo tranquillo, no?).
E i giochi da tavolo erano un passatempo meraviglioso e più o meno tranquillo: dalla tombola al gioco dell’oca, a un fantastico gioco chiamato “Concilia?” che insegnava come comportarsi sulle strade alla guida, fino al Monopoli.
Quando si era in tanti e si stava all’aperto, era quasi d’obbligo un nascondino, un “Fornaio è cotto il pane?”, un “Regina reginella quanti passi devo fare?...”
A seconda poi di dove mi trovavo avevo giochi piuttosto stagionali da fare: se ero ai piedi delle Dolomiti, catturavo lucciole nei prati estivi per rubarne la luce, o costruivo casette per lumache; se mi trovavo al mare di Puglia non mancavano i castelli di sabbia, ma semplici, che tanto come già detto la manualità non è mai stata il mio forte, tanto meno l’ingegneria.
Il mio gioco più costoso forse è stato un cagnolino di peluche, ribattezzato Beniamino, che per le sue dimensioni piuttosto grandi era costato, con mio enorme rimorso, qualcosa come 15000 lire. Una fortuna, negli anni Settanta. Ma con Beniamino non ho neanche mai giocato: lui veniva a dormire con me, e quello bastava.
Però devo dire la verità. Il mio gioco preferito era fatto di carta e sogni.
Però devo dire la verità. Il mio gioco preferito era fatto di carta e sogni. Si chiamava libro. Non importava il tipo di libro, bastava che raccontasse qualcosa. Lo si giocava in due: io e il libro stesso. Lui raccontava, io fantasticavo, mi immergevo nella storia fino staccarmi dalla realtà, salvo poi ripiombarci dentro duramente ai ripetuti richiami genitoriali. A volte nemmeno capivo cosa stessi leggendo, ma non era un problema: poiché i libri in casa erano quasi sempre gli stessi, con pochi rinnovi, li rileggevo più volte e alla fine magari mi diventavano davvero amici.
Secondo me è questo il gioco più bello. Vorrei spiegarlo ai piccoli oggi alle prese con più o meno costosi mostri virtuali di cui si stufano dopo poco. Ma temo che se ci provo quelli puntano su di me qualche arma spaziale e premendo un tasto puff, mi disintegrano, registrando un punteggio più alto per poi riprendere a sparare a un nuovo mostro.