Accumulare alla Woolf
Gli accumulatori seriali o disposofobici, si fissano con ogni tipologia di rogna o fitinzia e riempiono una casa al punto da non avere spazio per loro. Le stanze sono colme sino al soffitto. Uno che conoscevo accumulava bottiglie di plastica, le riempiva di acqua e le poggiava ovunque, casomai ci fosse stata una siccità o il Comune non avesse erogato acqua. Quando morì ne buttai almeno mille, ci misi una mattinata a svuotarle e accartocciarle; e non è che gli servissero per bere, quell’acqua era di scorta per il lavaggio delle mani.
Nel programma “Accumulatori seriali” che Sky propone in uno dei suoi canali, stamattina una banda di ripulitori era alle prese con la casa di una accumulatrice che a dir poco era incazzata. Mentre lei sbraitava quelli portavano fuori vecchi giocattoli, bagnarole, mazzi di 39 carte, passeggini e vecchie pellicce.
La più grande accumulatrice che conosco – escludendo quello delle bottiglie d’acqua – è Virginia Woolf, il suo romanzo Gita al faro, per esempio, è stracolmo di accumuli: i figli della signora Ramsey stipano mazze e pantaloni da cricket, cappelli di paglia, calamari, barattoli di vernice, scarabei e crani di uccellini. Parole che seguono parole in un gioco di asindeti e polisindeti, una goduria per chi, come Mandel’stam, ritiene che l’elemento che caratterizza la prosa è l’accumulo, che di essa è tessuto, morfologia. Scrive ancora la Woolf: le foglie volano alla rinfusa sino a ricoprire il prato, a intasare le fogne, a ostruire le grondaie, a sparpagliarsi sui sentieri fangosi. E poco dopo: ma solo lembi svolazzanti, legno scricchiolante, nude gambe di tavoli, tegami e porcellane ormai incrostate, annerite, screpolate.
I produttori di “Accumulatori seriali” non esiterebbero a raccogliere crani e fogliame per lasciare sulla pagina una prosa asfittica fraseggiata neanche paratatticamente, a colpi di “canc”, in un trionfo della linearità della sequenza soggetto-predicato-complemento.
Meglio la prosa materica di chi riempie le stanze-pagine di oggetti e oggetti, un po’ collezionando un po’ conservando in funzione di un utilizzo futuro. Nessuna è la differenza tra l’oggetto e la parola che lo richiama. Oggetti in disuso richiamano parole in disuso, ne diventano memoria. Ognuno di noi dovrebbe tenere sotto il letto uno di quei vasini con i manici in cui fare la pipì di notte, così facendo ricorderemmo l’esistenza della parola “pitale”. Le case degli accumulatori allora sono, a tutto titolo, luoghi lessicali dove oggetti e parole si combinano secondo accostamenti e vicinanza, in una narrazione che dalla pagina passa alla realtà senza discontinuità.
Ma a tanti le case un po’ troppo piene e in disordine richiamano l’assenza di una cameriera o di un padrone di casa ordinato, richiamano la necessità di convocare psicologi, bande di ripulitori e una troupe televisiva più attenta alle ire dell’accumulatore che alla fascinazione dell’accumulo.