La preghiera dello sceicco
“Ho quasi cent’anni e mi sento un sopravvissuto. Di cose questi occhi ne hanno viste parecchie e grazie a Dio le posso ancora raccontare. Assaggi il Suo té signorina, mi auguro che Lei sia un tipo paziente”.
La sagoma bianca che mi indirizza tali parole è assisa su una poltrona color cammello, aggrappata ai braccioli come se temesse di cadere da un momento all’altro, china in avanti come a dover sussurrare qualche segreto a un interlocutore immaginario.
“Il té è dolcissimo e qui il tempo sembra non esistere. Per me è un onore ascoltare i Suoi racconti”.
“La mia è la storia di una fortezza del deserto, erta a chilometri dal mare, tra le dune di sabbia. Messa a dura prova dal logorio degli anni ma ancora in piedi, orgogliosa, a cantare di un passato glorioso che oramai non esiste più”.
La voce esce melodica come in una nenia, i toni a volte soavi altre gutturali dell’arabo a creare una cantilena dalla cadenza quasi magica. Parla dondolando il capo mentre i piedi nodosi sfiorano il tappeto. Gli occhi scuri come due pozzi neri che a guardarci dentro si vede l’avvicendarsi dei giorni e degli anni.
“La fortezza era tutta in fango, con pareti alte e sentieri stretti e intricati come in un labirinto. Le mura di cinta avevano solo una porta che veniva chiusa ogni giorno al tramonto. Chi restava fuori di notte era in balia degli animali del deserto e dei predoni che venivano dalla Libia. La nostra era una vita semplice. Il povero era molto povero ed il ricco troppo ricco. Il giorno e la notte si susseguivano in una danza scandita dal richiamo alla preghiera. Le nostre donne cuocevano il pane con il grano importato dalla costa mentre noi uomini coltivavamo datteri e verdura nei giardini. Il sole del deserto era il dio dei nostri giorni, la luna e le stelle la consolazione delle nostre notti.
Ancora non parlavamo l’arabo e per noi l’Egitto iniziava a Marsa Matrouh. La comunità era il nostro mondo e per noi l’universo ruotava intorno alle decisioni prese dal consiglio dei saggi, i capi delle nostre dodici tribù. Le leggi non serviva scriverle nei libri perché le portavamo incise nel cuore: ogni buona azione aveva il suo premio ed ogni reato la sua pena.
Eppure vigeva la legge del più forte, questo ce lo insegnava Madre Natura. Non c’erano ospedali né medicine moderne. Ci affidavamo ai nostri vecchi e ai rimedi naturali. Se a qualcuno doleva la pancia gli si dava una bevanda fatta con l’henné e i datteri, per farlo vomitare. Le ferite le medicavamo con il kohl e la tela del ragno, la congiuntivite con un collirio ricavato dalle foglie di vite. Tanti di noi non sopravvissero e i loro spiriti vagano ancora in pena per le nostre montagne”.
Siwa era isolata dal mondo, ma il mondo si ricordò ben presto di lei.
“Quando scoppiò la guerra ero un ragazzo ed abitavo vicino al mercato. Gli aerei riempivano di rombi il cielo e la comunità decise di mettersi al sicuro nelle montagne. Vivevamo nelle grotte come esuli in terra nostra, i graffiti alle pareti a raccontarci i miti delle nostre origini.
La guerra era ad El Alamein e le forze dell’Asse usarono l’oasi come base militare per alcuni mesi. Gli italiani e i tedeschi non erano gente cattiva, tuttavia ci privarono dei nostri beni, mangiarono i nostri datteri e uccisero i nostri asini. Ai tempi dell’occupazione, nel periodo di Ramadan, Rommel fece visita allo sceicco Mosri. Mosri era il nostro capo villaggio, un uomo saggio e timorato di Dio, la cui fama, precedendolo, gli assicurava la venerazione dei più. Aveva un giardino molto frequentato, utilizzato per le cerimonie e le feste. Fu lì che Rommel venne accolto e bevve il té. Io stavo tra la folla a guardare e ad applaudire”.
Fa una pausa. Nella stanza la penombra è ora semi-oscurità.
“Dopo la guerra ci fu la rivoluzione, noi diventammo egiziani e la modernità ci investì con la repentinità di una tempesta di sabbia, come il boato di una bomba che esplode all’improvviso dentro ad una scatola sigillata. Con il progresso arrivarono il cinema, la radio, la televisione ed un aereo che due volte la settimana viaggiava in direzione della costa per permetterci di far fronte quantomeno alle emergenze mediche. Il resto non devo raccontarglielo, lo può vedere con i Suoi occhi”.
Tra le dita callose si rigira la sibha, il rosario a 99 grani – uno per ogni bel nome di Dio.
“Ma nessuno dei giorni sarebbe valso la pena essere vissuto se non in funzione di Allah. Questo è lo scopo delle confraternite sufi: pregare Allah e rafforzarsi in lui, perché se stai vicino a un fabbro all’opera non puoi evitarne le scintille e se vivi vicino a un venditore di profumi non puoi evitarne le fragranze. Così è con Nostro Signore. E in fin dei conti, signorina, siamo brava gente che rende grazie per aver avuto la fortuna di vivere in paradiso”.
Re-immergersi nel traffico snervante della città è come svegliarsi da un sogno. Niente pare più irreale dello sceicco Omar nella sua tunica bianca, intento a raccontare aneddoti di un’epoca passata. Ma c’è qualcosa a ricordarmi che quanto ho visto e udito è vero: una poesia che Omar ha imparato a scuola da bambino e che mi ha declamato con le lacrime agli occhi in onore della sua amata oasi:
Sīwa, la mia cara patria, dimora della mia famiglia
la tua bellezza è la mia pazzia, in te si compie la mia felicità
L’acqua è copiosa e abbondante e i campi riposano verdi
Il tempo estivo e luminoso brilla nella mia veste più splendente
Oh mia patria, le cui palme sono origine del buon dattero!
La tua è la bellezza dei tempi delle origini.