E se mi comprassi l’ipod?
Lo so, sono ingiustificabile. Io l’Ipod non ce l’ho. Sì, quell’aggeggio con le cuffiette che metti nelle orecchie così che mentre fai qualsiasi altra cosa ascolti la tua musica preferita, scelta da te, selezionata a tuo gusto al pc tra milioni di brani e senza spot pubblicitari o voci indesiderate di speaker chiacchieroni. Una delle tante meraviglie inimmaginabili fino a qualche anno fa.
Per sentire le canzoni che amavi l’unico modo era… comprare i dischi. I 45 giri di vinile, con un brano sul lato A e uno sul lato B, dello stesso cantante. Ci voleva il mangiadischi, che era pure portatile, funzionava a batteria e te lo portavi ovunque. Oppure il giradischi, così potevi ascoltare anche i 33 giri (Long-playing o LP), che di brani ne contenevano di più, ma che però non potevi portarti dietro se avevi voglia di una scampagnata, perché necessitava sempre di una presa di corrente. E poi le puntine si rovinavano. E se saltavano sui solchi si rovinava pure il disco. Ho avuto anche la fortuna di vedere l’opzione 78 giri, per i dischi ancora più antichi. Se sbagliavi opzione la musica cambiava velocità ed era tutto un ridere.
Se non avevi un mangiadischi tuo c’era sempre il juke-box al bar. Gettonatissimo, è il caso di dirlo, in spiaggia. Non c’era baretto che non avesse il suo. Del resto era l’unica forma di pubblica condivisione musicale. Un contenitore, grande più o meno come un mobile di casa, che nel tempo ha assunto fogge variopinte e decorative, con una vetrina divisa in sezioni nominate da una lettera e da un numero. A ognuna corrispondeva un disco, che stava nascosto nella pancia del mobile. Mica era gratis, s’intende. Per ascoltare musica si pagava. Una moneta da 50 o 100 lire e potevi scegliere uno o più brani di tuo gradimento. Che tutti i presenti ascoltavano insieme a te. E se era un lento bastava lanciare uno sguardo languido nella direzione giusta, senza bisogno di parole, per fornire all’indirizzo giusto tutte le spiegazioni del caso, nonché la tua voglia di essere presa fra le braccia per un ballo rubacuori. E chi se ne fregava se poi gli altri avventori o gli amici sgomitavano e ridacchiavano.
Le 50 lire potevano risultare un ottimo investimento. Oppure una perdita inconsolabile. Ma almeno la musica era assicurata.
Ma era musica ancora statica, per così dire. Gli strumenti per utilizzarla cioè necessitavano di forzata immobilità causa presa elettrica.
Poi la radio, che era nata molto prima della televisione, conobbe una resurrezione. Nacquero le radio libere. O, come si diceva allora, le radio pirata. In realtà erano legalissime, avevano tutti i diritti di esistere e utilizzare la modulazione di frequenza (FM), liberalizzata per legge. Queste nuove radio, che si potevano ascoltare solo entro un raggio ristretto, trasmettevano per lo più quasi esclusivamente musica. Molte volte musica a richiesta. C’erano gli speaker, o DJ, che attraverso l’etere parlavano a te direttamente, sì, si rivolgevano a te come fossero amici tuoi, ti chiedevano che musica volevi ascoltare e se volevi dedicarla a qualcuno.
C’erano gli speaker, o DJ, che attraverso l’etere parlavano a te direttamente, sì, si rivolgevano a te come fossero amici tuoi, ti chiedevano che musica volevi ascoltare e se volevi dedicarla a qualcuno
Ma la voce gentile, forse intuendo la mia solitudine, in onda mi definì simpaticissima, me lo dedicò a sua volta, e mi fece commuovere. Così che telefonai una seconda volta per un altro brano, tanto per sentirmi pensata.
Nascevano pure canzoni dedicate alle radio libere. La radio di Eugenio Finardi mitizzava la libertà di poter comunicare direttamente senza intermediazione:
“Amo la radio perché arriva dalla gente
entra nelle case e ci parla direttamente
se una radio è libera, ma libera veramente
piace ancor di più perché libera la mente”.
In diretta nel vento dei Pooh dipingeva una situazione in cui il DJ in trasmissione notturna
“Il microfono è come un bambino
gli parlo e non so
se dorme o mi ascolta
la luce è sciolta nel caffè.
E ogni notte così, questa radio è il mio mondo
coi dischi, i giornali e gli scontrini del bar”
veniva raggiunto da una telefonata della sua ex e dopo un momento di immaginazione sexy
“e addosso cos’hai
voglio saperti tutta
ti voglio sentire come stando lì”
decideva
“e questo momento
in diretta nel vento
lo voglio dedicare a te”.
Inutile sottolineare come soprattutto quest’ultima canzone mi facesse sognare e apprezzare la radio e il principe azzurro immaginario che la radio la faceva.
In un’altra canzone dei Pooh, Sara nel sole, si parla di una radio libera impegnata socialmente:
“Il ragazzo graffia la città
da una radio libera del centro
per un suo linguaggio un po’ speciale
già due volte gli hanno fatto male.”
Da lì a poco l’impegno civile delle radio diventava un simbolo con radio AUT fondata da Peppino Impastato. Dalle sue frequenze si liberava nell’etere la denuncia, la lotta alla mafia. Libertà che è costata la vita al coraggioso giornalista.
Ma questa è un’altra storia.
Le radio libere trasmettevano musica che potevi ascoltare anche in giro, bastava un auricolare e la batteria, sperando che la modulazione in FM fosse abbastanza stabile da sentire qualcosa senza fruscii o crepitii.
La musica faceva socializzare noi adolescenti con poca libertà di uscita.
Era facile trascorrere interi pomeriggi a sentire le canzoni preferite alla radio, cercando di registrarle con il registratore a cassetta, per poterle poi riascoltarle quando si voleva. D’accordo, era un po’ piratare, ma non era per lucro e non era comunque facile. Intanto bisognava stare pronti con la cassetta inserita e un dito sul tasto record; sincronizzarsi in modo da non mangiarsi l’inizio della canzone era un’impresa. Se poi ti riusciva quello, stai sicuro che lo speaker magari parlava sul brano o lo interrompeva prima della fine, con nostro assoluto disappunto.
La musica faceva socializzare noi adolescenti con poca libertà di uscita
Si poteva anche studiare l’inglese divertendosi. Era un gioco, infatti, riascoltare le canzoni in inglese più belle (negli anni 80 ce n’erano molte), mandando avanti e indietro il nastro per cercare di capire le parole.
Le musicassette naturalmente si acquistavano pure già registrate, come i dischi. Chi era fortunato ad avere uno stereo in macchina, visto che delle radio locali si perdeva il segnale muovendosi, poteva ascoltare i cantanti preferiti senza disturbi, sotto forma di nastro magnetico. Se ne deduce che dovevi avere almeno un amico con la macchina e la macchina con lo stereo. Con il rischio che l’amico passasse il tempo a lodare la potenza delle sue nuove casse anziché accorgersi di te.
E in un vortice venne il tempo dei cd, che con le stesse dimensioni potevano contenere una o cento canzoni (si fa per dire), e poi la musica ascoltata al pc e scaricata dal web, a volte rubata come una volta si registrava dalla radio. Farlo adesso è illegale mentre prima, boh?, sembrava naturale.
E dunque è il tempo dell’ipod. Che mi manca, non ce l’ho.
La musica oggi l’ascolto a pezzi qua e là, presa da troppe faccende, non sto più al passo con le nuove uscite e non ho tempo di fermarmi a tradurre quelle in inglese. Mi chiedo se per caso non sia ora di regalarmi il diabolico strumento per riascoltare, mentre faccio mille cose, le note di quando la musica era rubata, dedicata, e infine consumata, racchiusa in un nastro o in un vecchio disco.