Morfologia (nostalgica) delle quattroruote
Non so se ci sono persone che come me faticano a riconoscere dalla morfologia le automobili in circolazione. A me sembrano tutte uguali, con pochissime eccezioni. Parlo da profana, non coltivo il culto delle quattroruote, ma l’impressione è che se anche una casa automobilistica propone un modello innovativo, ecco che questo viene subito copiato e addio innovazione. Vanno di moda SUV e monovolume, ma per distinguerle io devo rivolgermi a wikipedia o fidarmi della classificazione ufficiale; le utilitarie hanno più optional di una Ferrari e sono costose; le station wagon, che ancora riuscivo a riconoscere perchè simili alle auto delle pompe funebri, sono in via di estinzione.
È soprattutto nel design che le auto moderne si uniformano troppo per noi profani: non sono più uniche e riconoscibili, l’offerta si moltiplica come pane e pesci, ma i modelli sembrano sempre simili a se stessi. Così che, se sei tanto fortunato da poterti permettere l’auto nuova e se sopravvivi al martellante richiamo della pubblicità che ti fa sentire un poveraccio se non compri questa o quella macchina, ecco che ti smarrisci in un labirinto di “occasioni” così intricato che non sai più cosa scegliere.
Eppure fino a qualche anno fa ancora me la cavavo nei riconoscimenti. Le auto avevano forme uniche e soprattutto avevano una storia.
Le auto avevano forme uniche e soprattutto avevano una storia
In principio fu la 500 Fiat. Impossibile non nominarla. Piccola come un guscio di noce, ma dalle pareti elastiche: era risaputo che nella 500 ci potevi caricare qualsiasi cosa e qualsiasi numero di persone. Ci stava tutto. Se aveva il tettuccio apribile poi era un’autentica figata: tutti con la testa fuori a prendere aria! E occhio se per caso aveva la portiera che si apriva al contrario. Fare la doppietta con le marce poi era d’obbligo: io, testona, non ho mai capito come si faceva.
In famiglia c’era una zia con la 500 più classica che c’è, quella giallo sole. Portava al mare noi piccoli e ci stavamo tutti comodi insieme a salvagenti e ombrellone.
La sorella maggiore della 500 Fiat era ovviamente la 600 Fiat. Simile, appena più grande e meno simpatica. Salvo che per la versione familiare, una monovolume antelitteram che mi ha sempre fatto morire dal dubbio: qual era il verso giusto? Dava l’impressione di essere stata costruita al contrario, la parte posteriore sembrava quella anteriore e viceversa.
Anche la Bianchina aveva una sua dignità, un po’ meno la Prinz, che se era verde portava sfiga, che poi per liberartene dovevi toccare chi ti stava vicino, o meglio, colpirlo immediatamente e disperatamente. Roba da lividi.
Storia a parte era la 850 Fiat. Chi non ha avuto una 850 in casa? Detta anche ottosimpianta. Però era difficile che s’impiantasse. Squadrata, di media carrozzeria, simile alle macchinette che può disegnare un bambino, per ben due volte è giunta in casa mia. L’aveva il nonno, celestina. Lui, che era macchinista, quando era al volante pendeva tutto da un lato, e diceva che era così perché guidava i treni. Non so cosa c’entrasse, ma questa spiegazione doveva bastare. L’altra ottosimpianta era di seconda mano e aveva il cofano di un altro colore, così alla fine è stata dipinta tutta color carta da zucchero e non chiedetemi subito che colore sia codesto, che pure io da piccola non lo sapevo e poi l’ho imparato: fate ricerche.
Mitica 850. L’ho guidata pochissime volte, la sua presenza ha coinciso con la mia età da patente ma era tabù. Era necessario portarsi dietro l’acqua, perché ne perdeva. Una bottiglia a bordo non mancava mai, ma se mi chiedete dove l’acqua andasse messa in caso di necessità ancora adesso non vi so rispondere. L’importante era che ci fosse.
Ma quello era il periodo anche delle 127, sempre Fiat. Era quasi impossibile non avere una Fiat qualunque in casa. Le altre case automobilistiche erano certo più costose: Mercedes, BMW, Citroen (qualcuno ricorda la Citroen CX che si alzava e abbassava sulle ruote posteriori?), Opel e Renault. Meglio un’azienda di casa. A volte bistrattata, erano anni di crisi per la fabbrica torinese, ma alla fine sempre prescelta, convinti però che comunque avrebbe avuto difetti “perché era Fiat”.
Per tornare alla 127, anche questa ha un suo perché. Intanto deve essere giallo avana. Perché quando nomino questo numero io ricordo esclusivamente la 127 del mio professore preferito. Il quale di tanto in tanto ci abbinava anche un paio di pantaloni quasi dell’identico colore. Ma che dire, era bello vedere arrivare quella sagoma un po’ triangolare e quel colore che, può sembrare assurdo, era abbastanza anonimo tanto era diffuso. Riuscire a farsi dare un mezzo passaggio sul potente mezzo del prof (nel cui interno era imprescindibile un gran disordine), fosse solo per pochi metri, era emozionante come salire sull’Apollo 11. Quando scendevo io ero di sicuro in orbita. Ma mi è capitato credo una volta sola. A tutt’oggi il mio inconscio, quando sente 127, vi aggiunge il giallo avana. Mentre la sorella minore, la 126, cugina della 500, andava bene soprattutto rossa.
In tutto questo fiorire di cifre da disorientare un matematico, le auto erano in genere riconoscibili.
Qualcuna divenne subito celebre senza passare per i decenni, come il Maggiolino o Maggiolone. Complice anche il celebre film Herbie il maggiolino pazzo, in cui una semplice auto, nemmeno troppo comoda, è stata umanizzata e portata di peso nel mito.
Ma non era male nemmeno la 2Cavalli, a farci caso, oscillante com’era. Mentre la Ritmo, a dispetto del nome musicale, era già piuttosto anonima.
Un discorso a parte meriterebbero gli optional. Oggi l’auto ha il navigatore con cui chiacchierare, i comandi vocali, un pulsante o una scheda per l’accensione, il parcheggiatore automatico; ci sono modelli che vanno con altri propellenti al di là della benzina (super o normale?, avrebbero chiesto all’epoca): vari tipi di gas, sole, elettricità e forse solo per puro calcolo ancora non c’è un motore ad acqua.
Ma vuoi mettere? “Quelle” auto avevano cani con la testa ballonzolante sul cruscotto, santini calamitati che raccomandavano prudenza, pomelli del cambio con la forma di teschi, coprisedili con palline di legno massaggianti o trombe dei clacson alla ultrà.
Si parlava però di forme. Alcune di loro sono state oggi riesumate e MODERNIZZATE, perché hanno innegabilmente lasciato un segno. Però, se volete il mio parere, la sensazione è quella del palliativo per un malato grave: inutile, la nostalgia resta.